Scripta non manent – Sandro Pecchiari

  • Tempo di lettura:8 minuti di lettura

immagine di copertina di Charlie Johnston, Story Lines, 2005,
murale acrilico alla Millennium Library, Winnipeg, Manitoba, Canada

 
 


 
 

Scripta non manent
Sandro Pecchiari

Samuele Editore 2018, collana Scilla
prefazione di Giovanna Rosadini

pag. 106
Isbn. 978-88-94944-02-0

12 €
 
 

Quando si può dire che un’opera sia veramente finita? Quanto c’è di arbitrario nel prendere la decisione di chiudere e consegnare un libro, visto che è di scrittura che stiamo parlando? Trattandosi di poesia, come in questo caso, quindi di un tipo di linguaggio ad alto tasso emotivo, non necessariamente legato a un modello di sviluppo consequenzial-narrativo, le cose rischiano di complicarsi, e chiamano in gioco, più che in qualsiasi altro tipo di testo, la personalità dell’autore in questione. Che è l’unico a poter capire quando quello che ha scritto corrisponde al proprio vissuto del momento, quanto lo rappresenta e lo ha esaurito. Per lo meno nel caso di uno scrittore come Sandro Pecchiari, la cui poesia si muove nell’ambito di una tradizione lirica di stampo novecentesco, per la quale il legame con l’esperienza biografica è imprescindibile: la parola si alimenta del vissuto emotivo e dei sentimenti dell’autore. La parola poetica è quella che più compiutamente esprime e traduce, con i suoi cortocircuiti semantici e le sue feconde slogature sintattiche, il magma emotivo che si agita nell’uomo, impossibile da rendere con una ordinata sequenza di pensiero. Le emozioni sono matrici di poesia, e il poeta ha una relazione viscerale con i versi che scrive: solo lui è in grado di sentire se la sua opera è compiuta o meno.

Giovanna Rosadini

 
 
 
 
Chi dispone le macchine
le verdure dentro le vetrine
il prezzo della vita?
 
permane il bar il ristorante
la signora all’angolo
oltre le tinte dei capelli
i giornali di ogni ieri
 
questo posto è un gommone
da troppi anni al largo
– siamo gente
da cui bisogna andare –
 
la via è questa
se non ci sono passi
 
cosa sogni la notte?
 
 
 
 
le braccia sudate dei moli
su navi tese come cani
su di noi la calura
perpetuala misericordia
della vita –
la rete esplode l’aria in lotti
il gabbiano slitta e s’immerge
e s’infilza come lama
dentro il pesce
 
la città assente presta le vene
e si dissecca addosso
e poi ti ruba
nel trattenersi del traffico
 
il mare alza l’enorme corpo
e ti chiede tregua dal riviversi
e sempre domandare
che ci sia una tregua al sangue
una tregua ora
dal gettare via il passato
di ciò che si diventa
 
fiorire ignoti
come fiori di geranio
sull’albero di giuda.
 
 
 
 
 
 
oggi la nebbia al largo,
è liscia come un letto disusato
la sirena illude chi
non torna, ma sʼattende sempre
 
non ti darò più le mie mani
decorticate a morsi
né questo bivacco di coltelli
dove insisto a tenerci
 
è nella preveggenza dei corvi
la fine di gennaio
nell’afasia del mare
se l’aria sospende le barche sulle grucce
 
lo sguardo affina il bianco
si spinge oltre alla ricerca –
un centimetro, un centimetro in più
verso un morire
 
 
 
 
 
 
il clamore della colza
tra il mattino e il suolo
è congiura di luce
e non saprei dire
di quest’aria che si estende –
aspro oro?
 
la partitura della strada dritta
è la spartitura tra le nostre vite
 
sarebbe ritrito dirti
le nostre strade si dividono
ha l’odore di canzoni
 
anch’io sbircio il tuo sguardo
il dirmi guarda, ma guardavo
questa fine in fondo alle parole
 
che bello! dici
eh, sì, ricorderemo
 
 
 
 
 
 
eppure sotto il sole.
l’allarme è rivale di cicale
 
esco, poggio le braccia
nel restare che la sbarra impone
e mette in riga guidatori di sudore
in incontri casuali
 
due parole, una sigaretta nel fuoco dell’attesa
fiori dai bordi asfaltati male
e il volo a schiaffi di farfalle
sul foglio a righe della ferrovia
 
lo strappo di rumore cadenzato
è un vedere a fiotti i volti della gente
e noi che li guardiamo
 
il silenzio mugugna
sul cigolio della via che s’apre
prima dello sbattere di porte
sui saluti di nuovo sconosciuti
e motori e dispersione ancora
 
eppure la gente aveva sguardi e mani e anni
aveva pelli da viaggio, accalorate
e squarci di pensieri e percezioni
e parole disincagliate nel sostare
 
e tutto parla, ma non si sa capire
 
 
 
 
 
 
in ogni fortuna c’è l’abisso
d’una mano di traverso
una schiena che goccia nel venire
 
la finestra inclina
una strada di fiato stretto
di scarpe rifiutate –
l’affrettarsi della sera incespica
 
ma prenderemo sostegno dal pietrisco
che s’appoggia al cielo
se già svanisce il prato
e la soglia e il letto
e già li pretendo tra le braccia
 
mi fai strada
con un pugno
non
nel cuore
 
 
 
 
 
 
di te ricordo
         quasi nulla
         del casermone popolare
         la guerra persa
         i panni stesi
         spersi noi
         non lo sapevamo
         il cortile stretto
di te ricordo
         genitori danneggiati
         espugnati nella città
         rinchiusi
         e non lo sapevamo
         gli anni stretti
 
l’indomani leccava i campanelli delle case
dalle case nessuno rispondeva
 
ricordi
         i giorni d’acqua per voltare le stagioni
         in coda all’orizzonte
         sempre meno sempre meno
         ti serviva il tuo dialetto
         le città erano differenti
         in balzi di canguro
di te ricordo
         aspettavo tra navi da guerra americane
         modellini d’alluminio di aeroplani
         atterravo a piedi pari
         rompendo rumoroso
         le corte frasi che non ti avevo detto
         un ciao almeno
 
la valigia dell’infanzia era cartone
da quel giorno vi ho riposto il reciproco scordarci
e consumato la dimenticanza
 
 
 
 
 
 
Hermes
 
Seguimi in questo rischio di passi silenziosi
con solo nelle orecchie lo scalpiccio del sangue.
Ho bisogno che siano sigilli di fiducia.
O forse calpesti per negare? Non vedo le mie orme,
non è permesso. Dimmi! Ti aiutano ad andare?
O sono una bara soffice in copie troppo fragili?
Dimmi che lancerai un cappio esangue di parole
che io proceda sicuro dentro te;
se mi fermassi, tu tratterresti la distanza
nel piegarsi del sentiero?
E tu mi rendi più solo in questo misurarci.
 
Non sono l’uomo da cui nascesti,
tu non più rifugio; però rimani, nell’andare,
il recinto a cui mi lego.
Ti allevia questo? O confonde il tuo avanzare?
Con me porto la gioia in frantumi inaspettati,
porto via i sorrisi che ho riposto nello zaino.
Mi sono incaricato anche dei tuoi, rovistando nel ricordo.
Non li ho rubati! Li serbo per la sosta.
 
Ci sei ancora? Ti percepisco dentro la mia pelle
e questo non permette di distinguerci.
Meglio nascondermi nel prossimo turbarsi del sentiero:
il tuo seguire diverrà così un precedermi.
Con davanti una vita vuota di tracce,
confuso dalle cose che hai perduto,
forse ti volterai e Hermes