La vita in dissolvenza – Lucianna Argentino

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La vita in dissolvenza
Lucianna Argentino
Pagine 94
Prezzo 13 euro
ISBN 978-88-94944-56-3


 
 
Versione online Sbac!
Prezzo 4 euro


 
 
 
 

La profondità concettuale di quest’ultima opera poetica di Lucianna Argentino si comprende facilmente se pensiamo che i quattro testi che la compongono possiedono l’intrinseca compostezza drammatica del monologo commisto a tratti con le peculiarità espressive intimiste del soliloquio. Nelle intenzioni dell’autrice, monologo e soliloquio si dotano di una natura introiettiva attraverso l’immedesimazione nel vissuto delle protagoniste, tutte donne che scavano nei più oscuri recessi della propria anima per consentire l’emersione, senza filtri né censure, del proprio dramma psicologico e della propria krisis personale.

Si tratta, in effetti, di elaborazioni poetiche di quattro storie vere, rilette attraverso le lenti estetiche di una parola poetica delicata e gentile, che a sua volta tenta di indagare la natura naturante del dolore esistenziale come anamnesi morale del principio di autocoscienza. Indicativo è il fatto che la poetessa prediliga la rappresentazione poetica del vissuto femminile, lascito metaforico di veri e propri exempla atti a rappresentare la capacità di resistenza, resilienza e autodeterminazione che la Donna assume su di sé come ruolo nel mondo.

Nel primo monologo, intitolato Madre, Lucianna Argentino ha messo in versi la vicenda di Rita Fedrizzi, persona comune priva di eroismi e velleità di fama che si trova ad affrontare una scelta tragica nel senso più letterario e letterale del termine, se è vero che l’essenza stessa della tragedia consiste nel trovarsi di fronte a un bivio il quale porterà, qualsiasi via si preferisca, a una inevitabile catastrofe: la protagonista, infatti, scopre quasi contemporaneamente di essere incinta e di avere un grave melanoma. Portare avanti la gravidanza assume quindi per lei il valore simbolico di un atto sacrificale che è, contemporaneamente, atto d’amore supremo e dono di vita.

Sonia Caporossi

 
 
 
 
Madre
 
La sento, sai la sento la forza che ci plasma
plasmare te nel mio utero
fatto di nuovo nido, fatto culla d’acqua
e tu, grappolo di vita, mora succosa,
aggrappato alla mia carne
fatta falda di sangue per le tue radici. Radice io pure
eppure io albero da frutto, ponte da te edificato
dalla tua voce chimica inturgidita.
In me ti seppellisci, in me sprofondi
e mi faccio pasto, focaccia
per il tuo crescermi negli abiti, nei cromosomi,
per il tuo somigliare a tutti quelli della tua misura.
E tu fai me fuori misura, me donna sempre in fuoriuscita,
in spargimento di qua da te,
a prepararti un nome, a scavarti un luogo.
 
Quando ero bambina, di notte, nel mio letto,
vedevo gli uccelli in ferro battuto
che decoravano la sommità dell’armadio animarsi,
prendere vita. Mi pareva allungassero le ali
come per sgranchirsi dall’immobilità,
prima di spiccare il volo e venirmi contro minacciosi.
Allora mi rannicchiavo sotto le coperte
e chiudevo gli occhi perché sapevo
che era il mio sguardo a dargli il movimento,
sapevo che era la paura rimasta nascosta
durante tutto il giorno che sgattaiolava fuori
e tutta si radunava sotto le ciglia.

 
Radunata io tutta attorno a te, attorno a te coagulata.
Io e te adiacenti, legati dalle scorribande del sangue,
dalla gioia di farti uomo e di rifarmi tu bambina
ché senza età è il mio esserti madre,
materia docile al tuo volermi madre in biologia e in amore.
Amore del sì detto in tremore
il sì che nella esse striscia, scorre basso col peso del dubbio
nella i poi s’innalza, veste le ali e incede verso l’infinito incanto.
E sento sai che sempre c’è un angelo
che senza domandare attende una risposta.
E sì rispondo ancora perché mi hai scelta,
perché mi rifai madre un’altra volta.
[…]
 
 
 
 
 
 
Gestazione dell’addio
 
[…]
 
Orrore e scempio di me in quell’ora che eccedeva,
cadeva a capofitto nella colpa
di essere stata vittima per caso, per genere,
per la distrazione di un tempo rinnegato all’innocenza
quando forse quel giorno un segno c’era stato
ma non l’ho saputo interpretare,
né ricordo nulla come se mai fosse stata la vita
– prima.
 
C’era quella notte che era bella
e le stelle sì, quelle le ricordo
anche se poi ho chiuso gli occhi
li ho chiusi forte troppo forte forse
perché è sceso fitto il nero
e m’è rimasto dentro, non è più andato via
e la terra s’è aperta e sono sprofondata.
Proserpina rapita e risputata
in un tempo tumefatto fatto arco di tenebre
sopra un vuoto sotto cui scorre
il nostro stare separati e contigui.
Negata alla cura e alla pietà, da tutto slegata
ora non so di me altro che questa slogatura,
questo volto che non so più guardare.
Non mi sono mai saputa immaginare diversa,
altra da ciò che ero e adesso non mi riconosco.
Non l’ho saputo fare per questo non mi perdono
né perdono loro che perdono non me l’hanno chiesto!
[…]
 
 
 
 
 
 
1941
 
[…]
 
È il crepuscolo della colomba,
la luce si sveglia, sbadiglia stanca,
la collina, nuca della notte in ritirata,
non si volta all’impaziente gemere della terra.
Gli uccelli cercano un pertugio nell’oscurità,
ordiscono la trama aerea di questa offesa aurora
ora che eterna è la notte, contraffatta la vita
e il gallo non canta più.
Gli alberi sentinelle a guardia di trincee dove il respiro
tenta un innesto alle radici del bene per un più saldo andare,
osservano il vano rassettarsi del tempo
e i fili di fumo salire dai tetti: incenso offerto da un altare deserto.
L’aria benedice il mattino, lo asperge di rugiada,
deterge i gomiti sfiniti della luce
in preghiera sui banchi tarlati del mondo.
L’erba duratura del distacco insegue la pazienza.

 
[…]
 
 
 
 
 
 
Aurora/Sara
 
[…]
 
Mia madre dice che sono matta
sempre con quella bambola orba
che non sapevo che significa
e le dicevo non è orba è Aurora!
Lei non capisce, non sa che il silenzio di quello sguardo
è l’abbraccio a cui lei manca,
è mammella con cui nutro la mia fame.
Aurora è la guardiana per la paura
di non esistere, di non sapere chi sono,
di non farcela a convivere con l’assenza.
 
La luce ha ragione
nel suo ostinarsi a fare chiaro
ma la sua vera arte è l’ombra.
L’ombra è la voce della luce
e la notte è il suo canto pieno

 
mi sussurra Aurora di notte
per questo non temo il buio.
È quando viene giorno che mi prende la paura
e non mi ci arriva il fiato a dirla
tutta quella luce estranea, opaca
tutti quegli occhi frettolosi addosso
a farmi diversa a farmi un’altra.
Il buio mi è caro, mi è grembo e riparo
e se lo guardo con i suoi occhi cavi
trovo la luce buona, la luce madre
che spinge in alto le radici.
Imparo al tatto tutto il mondo
in cui passo con ossa morbide, da latte – ossa da gatto
per cercare quanto di me non è nato
perché ho ancora il peso leggero della nascita
e non lascio tracce.
Aurora sorride…
 
[…]