Le svelte radici – Sandro Pecchiari

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ESAURITO
 

LE SVELTE RADICI

Sandro Pecchiari

Samuele Editore 2013, collana Scilla, prefazione di Mary Barbara Tolusso

Essere nel mondo, pare dirci questo Sandro Pecchiari. Tutto entra in questa sorta di Canzoniere abitato e toccato dagli uomini, soprattutto attraversato, reso noto dall’importanza che hanno per il poeta i luoghi riportati alla fine dei versi, le città in cui quei versi sono stati ispirati. Pecchiari sceglie il “contatto” della visione, di immagini piane – ma anche labirintiche – che non dimenticano mai di attraversare le cose stesse. Sono paesaggi captati nel loro carattere assoluto proprio perché mantengono la naturale carica vitale di una visione, se così si può dire, fatta di istanti e natura (tanto da farci venire in mente, talvolta, quel capolavoro d’immagini che è stato Picnic a Hanging Rock). L’equilibrio è sostenuto anche da una tecnica che domina una linea classica (spesso viene in mente Foscolo. O Leopardi), che ben corrisponde al carattere introspettivo e meditativo del libro. Una poetica dello sguardo (anche) panico ma dove, attenzione, non c’è nessuna istanza consolatoria, almeno di prima battuta, fin dall’inizio infatti l’autore ci ammonisce senza troppe mediazioni: “E mentre voli in questi luoghi/ li tocchi quasi e quasi li conquisti/ regala loro presto un nome/ perché da qualche parte/ il tuo gran regno sta diventando pioggia”.

È chiaro che la componente visiva e sonora della parola trasforma la pagina in uno spazio scenico (una sorta di trait d’union che pervade tutto il testo), in cui certo i quadri sono importanti, soprattutto perché permettono di registrare le trasformazioni del soggetto, del suo modo di percepirsi e percepire. Spicca la presenza del “corpo” (non solo umano) inteso nella sua eccezione di elemento naturale e visibile che, più degli altri, diviene esempio di metafora di uno spazio altro: “rivelando rudemente/ la distanza vasta e vuota/ tra noi/ e ciò che non vediamo”. Altre volte il corpo è investito da una diversa modulazione lirica, tra onirismo e carica erotica, ma nulla che presti troppo il fianco a un canto orfico, nessuna traccia di conforto, sollievo o compiacimento, come ben rappresentano alcuni versi che ruotano intorno a un sentimento sempre consapevole: “Né io né tu tentiamo/ l’amore che ci resta”. Non è indifferenza al senso, piuttosto è affidare al senso quella leggerezza che gli compete e senza la quale è un fallimento qualsiasi ricerca.

 

(dalla prefazione di Mary Barbara Tolusso)

 
Pioggia e oro
 
Un tramonto come quelli di una volta,
con le nuvole che sono continenti
e musi d’animali e re dorati
che pretendono un ossequio doveroso,
 
con navi e vele tese verso approdi
che non potrai toccare.
Che brucia l’orizzonte, mentre tu
distogli il fiato e sgrani gli occhi…
 
E mentre voli in questi luoghi,
li tocchi quasi e quasi li conquisti,
regala loro presto un nome
perché da qualche parte
il tuo gran regno sta diventando pioggia.
 
 
 
 
Partenze
 
Le due tazze vicine, due bicchieri,
la caffettiera lustra e le posate
ormai asciutte nello scolapiatti,
nella casa in silenzio da quel giorno.
 
E i loro riflessi di ricordo
si sospingono avanti sgomitando
parlando urlando tutti assieme:
sfilze di frasi, qualche abbraccio,
quel tuo sereno possedermi,
un cincin al futuro senza crederci,
quel nostro sghembo complice sorriso,
il caffè che amo al cardamomo,
che mi hai portato da lontano
e che lontano ti riporta…
 
 
 
 
Treni
 
Così rivedo la campagna tra le nubi
e le file dense dei cipressi immusoniti
nella luce incerta che porta lenta all’alba
in un mantello di cielo color perla.
Che cambia in oro giallo impallidito
se volano gli uccelli risvegliati o i primi umani…
E svelto sfugge scivolando via
senza mai aggrapparsi al finestrino
se non nelle fermate.
 
Questa freccia veloce spintona la campagna,
sbeffeggiando i nemici che la schivano
– le strade parallele e i capannoni –
o tentano un attacco inefficace,
anteponendo fiumi, passaggi a livello
già in allarme
o l’Appennino largo sotto il sole.
 
Vorrei fosse così la vita,
un osservare lento senza soste,
con qualche riflessione, dei ricordi,
col tempo in faccia
e gente rinnovata
che si narra.
 
 
 
 
Al vento conosciuto, al vento sconosciuto
 
la mia casa è tua
il mio corpo sempre
scolpito dal richiamo
perché so il tuo nome
e ti ascolto e riascolto
le stagioni…
 
 
 
 
un vento che non so
risponde con suoni di tempesta
e un odore di pietre sconosciute
mi guarda con voci di licheni
mi parla di ghiaccio
che si slabbra e sopporta
il mio persistere nel soffio
 
 
 
 
non so che fare
di questa chiarità
di visioni nel suo fiato –
uomini con passi pieni di pianure
il ronzio lieve lieve dell’aurora
il lupo che danza attentamente
tutto quello che non sarò
 
ma mi snuda in volo con le strolaghe
mi abbraccia rude e mi ferisce
mi commuove e mi addenta al pube.
 
 
 
 
La mia storia
 
donami le radici dei migranti
per incidervi insieme le emozioni
di chi dipinge i canti
 
radici che dimorino
nella più vasta corsa senza briglie
che intreccino un nido
sul cristallo indomabile degli occhi
 
che disciolgano sotterranee
il labirinto di vento dei deserti
l’annodarsi antracite delle acque
 
dammi radici nella corrente al largo
– il suo non visto oscuro parlottare –
radici a rafforzarmi nello scudo
inaspettato e forte di foreste
 
le mie radici ora scendono a patti
col rarefarsi della passata
presunzione del già fatto…
 
dammi radici con lo sguardo dritto
che rotei e affondi verso l’alto
dammi radici come frecce
che fissino il dio della vertigine
 
e fai che risultino retrattili
quando sarò alla fine.
 
 
ESAURITO