da Il Ponte Rosso n.35

 

SANDRO PECCHIARI RISCRIVE SE STESSO
di Walter Chiereghin

 

Sandro Pecchiari ci aveva abituati a una costante progressione del suo agire poetico che procede per approfondimento, tramite una bibliografia che si è arricchita velocemente, dal 2012 dell’esordio con Verdi anni, all’anno successivo con Le svelte radici e poi con L’imperfezione del diluvio, pubblicato – come le altre due raccolte – da Samuele Editore di Fanna, Pordenone, in una collana di poesia (Scilla) che può vantare ormai un’ottantina di titoli. L’ultimo volume di questa trilogia (mi si passi il termine, considerato che le tre raccolte esplorano emozioni assai contigue tra loro, oltre a ripercorrere un itinerario biografico giocato tra provvisori e precari approdi, tra il Canada e il Medio Oriente) ha visto il poeta ripiegato sui suoi versi a compiervi il delicato incarico di traduttore di sé stesso, che ha condotto alla pubblicazione di diciannove poesie in italiano e inglese, lingua quest’ultima non solo conosciuta e lungamente praticata dall’autore, ma strumento a indispensabile sussidio del suo approfondito e appassionato studio della poesia nella lingua d’Oltremanica. Come osserva Andrea Sirotti nella prefazione a quella duplice fatica poetica, Pecchiari «sfugge quasi sempre, nell’autotradursi, alla resa letterale, per privilegiare una sorta di fedele riscrittura nella quale nulla va perso e da cui scaturiscono […] significative varianti di senso e modulazioni di forza espressiva».

Quasi a proseguire su un diverso registro creativo quel lavoro di traduzione, arriva ora – sempre per i tipi di Samuele Editore – un quarto volumetto, Scripta non manent: si tratta generalmente – come recita il sottotitolo – di Riscritture, posto che i componimenti radicalmente “nuovi” interessano solo in parte il libro, essendo relegati nell’ultima delle quattro sezioni, quasi a sottolineare la necessità del riesame e della riformulazione dei versi esumati dalle precedenti raccolte come necessaria premessa alla continuazione del lavoro poetico.

Fin dal titolo della silloge l’autore ironizza sulla pretesa di permanenza nel tempo della parola scritta, facendosi beffe della locuzione latina che la contrappone all’espressione verbale, che il senso comune pretenderebbe più volatile. Il procedimento che Pecchiari mette in pratica con le sue riscritture poggia sulla ristrutturazione dei versi in precedenza pubblicati, attività considerata propedeutica alla prosecuzione di un percorso poetico che, lungi dallo scaturire da un’ispirazione nuova e inedita, abbisogna di un solido appoggio sui suoi antecedenti, magari piegandoli a una nuova esigenza di trovare, in forme normalmente più sintetiche e condensate, una rinnovata ragion d’essere che approfondisca più che reinterpretare quella a suo tempo scaturita da un’emozione distillata e poi catalogata e archiviata nel verso. Si tratta a volte della pubblicazione con varianti di un testo in precedenza già licenziato. Nulla che si discosti troppo dagli aggiustamenti che, in ondate successive, gli autori ripropongono, celando o rimodulando dettagli di opere già pubblicate (Umberto Saba, con le successive edizioni del suo Canzoniere, è un esempio preclaro di tale procedimento).

In Pecchiari questo riandare sui propri passi lirici non si limita che in alcuni casi a fornire materia per elucubrazioni filologiche sulla variantistica a futuri possibili esegeti. Nelle riproposizioni che con maggiore ampiezza modificano il testo di partenza, il discorso si fa trasparente e onestamente conclamato, al punto che la versione originale è pubblicata quasi in testo a fronte con la rilettura che il poeta compie sul suo stesso lavoro creativo.

Necessariamente, l’operazione messa in atto dall’autore appare coartata dal tempo intercorso, che interroga e attualizza la primitiva ispirazione, spesso appropriandosi di un nuovo riformulato presente. Per chiarire con un esempio (solo uno tra i molti possibili) nel caso della riscrittura di No way out (tratta da Verdi anni) in cui voltarsi è vedere/ una cartolina di decenni fa,/ finta e buffa,/ con un sorriso vecchio/ su un mare tinto a mano diviene ora, nella nuova versione un mare stinto a mano/ siamo una cartolina di decenni fa. Il trascorre del tempo ha stinto il mare e la cartolina di decenni prima non è più un oggetto da vedere con malinconica contemplazione nell’atto di voltarsi all’indietro, ma diviene essa stessa il soggetto plurale che include il poeta e il suo interlocutore, il «referente dialogico», come lo chiama nella prefazione Giovanna Rosadini. Il «tu» insomma, quel pronome personale che è una costante in questa come pure nelle precedenti raccolte, che in effetti compongono sostanzialmente un dialogo dilatato e interdetto, atto a protrarre indefinitamente una relazione che ha da tempo assunto le tonalità livide dell’abbandono e dell’assenza.

I componimenti “rinnovati”, nella generalità dei casi, si presentano più compatti e più sobriamente impostati degli antesignani che li hanno preceduti, talvolta agendo su di essi con mutilazioni importanti, com’è nel caso della struggente memoria del compagno irrimediabilmente perduto in Fine di partita. In altri casi una sintesi viene conseguita riducendo di numero alcune figure retoriche quali anfore e ripetizioni, com’è nel caso della parola «verde» in Verdi anni, che si ripete per tre volte in meno nella versione rivisitata. Altrove l’intervento è ancora più radicale, al punto di comporre versi assolutamente nuovi, dove si mantiene l’ossatura della poesia di partenza, alterandone però il senso, sia pure utilizzando a volte con semantica alterata le medesime parole. È il caso – ma è solo un esempio – quello delle pagine 52 e 53, dove l’originale un vento che non so/ risponde con suoni di tempesta diviene un vento che non so/ tempesta pietre: nel primo caso la parola «tempesta» è un sostantivo, mentre nel secondo diviene forma verbale.

Inevitabile, dovendo dar conto dei contenuti di questo Scripta non manent, addentrarsi, più di quanto sarebbe gradito fare, nell’esposizione di alcuni dei meccanismi tecnici dei quali si è avvalso Pecchiari per rivisitare il suo lavoro di ieri rendendolo più omogeneo al suo sentire odierno. Nella seconda parte del libro, a partire dalla terza sezione, che riproduce quasi senza il minimo intervento buona parte dei testi dell’Imperfezione del diluvio, pare placata la sete di ripensamento critico e, completata con tale sezione la parziale riscrittura e la selezione antologica di quanto in precedenza pubblicato, Pecchiari può affrontare alla fine con testi inediti la prosecuzione del suo cammino umano e poetico (il che è tutt’uno), rivelando al lettore il contenuto del suo bagaglio:

Con me porto la gioia in frantumi inaspettati,/ porto via i sorrisi che ho riposto nello zaino.

 

Walter Chiereghin