Giovanni Fierro recensisce “Traversi” di Patrick Williamson (Samuele Editore 2018) su Fare Voci
Queste sono pagine intense, che si muovono in uno scrivere quasi gestuale, come a far trovare alla parola il suo essere, il suo innervato significato e senso.
Perchè Patrick Williamson nella sua raccolta “Traversi” (con le traduzioni dall’inglese all’italiano a cura di Guido Cupani) ci racconta di chi fugge, di chi a casa propria non può stare, di chi il proprio pane quotidiano lo può solo chiamare speranza. Senza mai una vera certezza.
E quindi la sua poesia è l’occasione per affrontare il dramma dei migranti, con l‘esile sicurezza di ogni persona che affida la propria vita ad una possibilità di riscatto, di liberazione.
Lo scrivere di Patrick Williamson è denuncia, è poesia che si fa esperienza, si trasforma in una memoria sensoriale. Per tutti.
Gli scritti di “Traversi” sono poesie di conflitto vissuto, in questi suoi passi c’è l’attrito che i più deboli subiscono, nel loro sempre più arduo sopravvivere.
Sì, qui la “barca” è destino e condanna, è il palco della drammaticità della società, dove trovano posto gli esclusi e i sofferenti, con la stessa intensità dello spavento che si ha da bambini, di fronte alla paura.
Ed è prezioso il modo in cui sottolinea il ruolo del poeta nel fare questo.
“Traversi” è una vicinanza con il tempo e la società, un’appartenenza e non una lontananza.
E questo scrivere è il passaggio necessario, quello che trova forma “dall’acqua alla luce”, per dire dei “chiusi fuori”, dei non voluti e degli invisibili. Anche perché i prossimi potremmo essere noi.
Queste poesie non sono né un’omelia, né una preghiera è né un salmo, ma invece una lucida attestazione per dire da quale parte volere stare, un chiaro e netto schierarsi.
Perché poi l’epicentro di questo raccontare è anche, inevitabilmente, il naufragio, che è anche il nostro, come società e come singoli individui. Sempre e comunque.
E tutto questo impegno, questa attenzione ed empatia, è un lavoro significativo, per affrontare il nostro presente e rimboccarci le maniche, per “lasciarci la bruttezza alle spalle”.