Nerotonia nel blog di Giusy Capone

 

 

Dal blog di Giusy Capone

 

 

Lei rivisita la tragedia shakespeariana di Macbeth. Qual è la ragione per cui ha preferito l’osservatorio femminile ed erotico proprio di Lady Macbeth?

Ho molto ragionato su Macbeth, sulla figura maschile e sulla sua impasse. Pensare a Macbeth significava invischiarsi nell’impossibilità di trovare soluzione al suo quesito che riguarda l’essere o l’agire. È questa, a mio parere, la grande domanda che il generale shakespeariano ci pone. L’uomo Macbeth, vittorioso e sfigurato dalla guerra che dilaga nel Paese, e quella che in lui non ammette tregua, si perde. È perso dalle donne fatali che ne intercettano il cammino. E così si scinde a pensare, tremando all’idea, che non vi è nulla, assolutamente nulla che indichi una necessità pregnante. Cos’è un uomo? Chi sono io? Quale il mio significato stabile, misurabile, se non un’immagine in cui riconoscermi e farmi riconoscere definitivamente? E come accedere a quella forma: devo agire ancora o smetterla con queste mani assassine che pongono fine al mondo? Qual è, se vi è, la progressione tramite cui il mio atto si rende necessario come premessa di un esito che deve avvenire?

Le streghe lo salutano signore di Glamis, di Cawdor e re. Macbeth si chiede se, date le premesse favorevoli, debba intervenire direttamente per permettere al suo destino di avverarsi. Ma è preda del dubbio, dell’assurdo di sapersi finito e limitato, condannato a peccare e a morire, ma anche potente distruttore della vita altrui, campione del re e micidiale attentatore della pace che come un kamikaze si fa esplodere nel centro farraginoso di una contraddizione.

Presi in questo meccanismo malefico, pensa Macbeth, o si conta qualcosa – e allora si deve tentare l’azione definitiva – o si è nulla – e se si è nulla, tutto è gioco, tutto è un domani indecifrabile, insignificante: un domani che cancella la memoria del singolo, cancella i corpi, l’amore di un tempo, il ricordo del tentativo disperato di sapere chi si è, quale la propria funzione; e cancella, fin da subito, la risposta, la soluzione che non arriva neanche di fronte alle azioni più atroci.

Sono proprio questi dubbi che Macbeth mette in comunione con la sua Lady o così vorrebbe fare. E lei risponde, come sa. Perché Lady Macbeth è anche portatrice di un diverso ordine di sapere, sacerdotessa di una parola oracolare, seducente e ingannatrice, ma vera, che va al di là del piano della logica e attinge a un campo popolato di presenze che fanno da intermediari tra il mondo sublunare e l’origine: il caos spalancato che partorisce gli uomini e le cose, che fa essere il divenire.

L’identità di Lady Macbeth, nell’opera shakespeariana, si profila per paradossi, a indicare una natura che sfugge al pensiero consequenziale, che continua a riaffermare che le cose vanno considerate da un altro punto di vista, non razionale, e in cui è implicata una facoltà per cui il cervello non sembra importante: Non pensarci così, dice; e poi, queste sono azioni a cui non si deve ripensare così; qualche verso più sotto, allenterai l’arco della tua nobile forza / con questi pensieri forsennati; e infine, non perderti / così miseramente nei tuoi pensieri.

La soluzione di Lady Macbeth è quella di far emergere il desiderio superando gli scogli castranti di un dovere sentito come imposto, di metterlo in comunione, di compiere l’azione senza l’ausilio del pensiero e infine lasciare andare le cose, vivendole, pur nelle loro contraddizioni. Così si potrà attingere a un flusso di vita piena, armonica, non caratterizzata dal rimorso paralizzante ma da un assenso a ciò che si compie, all’atto nella sua pienezza. Questo apre l’orizzonte del tempo in cui, se si accetta l’attimo, si accetta anche il futuro, quel futuro che è hereafter, da ora in poi.

Lady Macbeth sembra dire che la direzione intrapresa non ha più bisogno di volontà, perché la volontà aspira a ritrovare qualcosa che non si possiede ancora, mentre la pienezza ha già ciò che desidera.

Ecco il punto. In azione vi è il desiderio, la mancanza delle stelle. E la tensione che spinge a riconquistarle percorrendo una strada accidentata con la bussola dello sguardo femminile insubordinato. Non a caso, nei primi versi dell’opera shakespeariana, Macbeth viene indicato come sposo di Bellona, una dea che, in origine, donava ai Romani il coraggio in battaglia e la lucidità per uscire dagli scontri con minor perdite possibili ma che, in epoca imperiale, divenne una divinità sfrenata e selvaggia, spesso avvicinata alle Furie. Il culto di Bellona venne unito anche a quello di una dea della Cappadocia, Ma, manifestazione della Grande Madre anatolica.

La Lady di Nerotonia è un’amazzone dal fianco aperto, potente e ferita, che sa che vivere è «l’estasi e lo spreco d’ogni cosa». È disponibile e in continua perdita, perennemente scompagnata, claudicante ma indomita. Ha sicuramente quel rovello macbettiano che caratterizza il maschile ma, anche se snervata, tenta di non soccombere nel chiedersi qual è la falla. «E dunque a me: / cos’è che manca, che si assenta? / sarà forse il grido della strega, / schiacciato dalla gara // ingaggiata con un uomo, / un dovere imposto / per stare al tuo livello, / usare il cervello… // e tu allora stermina il ferro / e dammi l’uccello / che becchetti sul mio / infinitamente introiettabile vascello». È una donna inquieta che vuole appartenere ma non si rassegna al cappio. Può cedere le redini del cavallo ma continua inesausta a contrattare ben sapendo che, insieme, loro due non faranno mondo. Si vota all’amore per capire e farsi investire dalla forza irrefrenabile del desiderio e si ritrova sola ma ricca d’esperienza, attraversata dalla sua e da quelle altrui. E resiste perché canta.

Giusy Capone

 

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