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Giuseppe Martella su “Canti di cicale” di Silvia Secco

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Nelle scorse settimane ho avuto la ventura di leggere o ascoltare tre poetesse bolognesi che mi hanno notevolmente impressionato: Claudia Zironi, Silvia Secco e Francesca del Moro, nell’ordine in cui le ho conosciute. In particolare, alcuni giorni fa al Vamolà, per la serie di incontri de I Giovedì DiVersi, ho avuto occasione di ascoltare la presentazione dell’ultima raccolta di poesie di Silvia Secco: Canti di cicale.

La voce essenziale, staccata, leggermente roca (per l’emozione forse), la prestazione corporea, fatta di gesti minimi ma incisivi, lo squisito accompagnamento musicale, ne hanno fatto una performance convincente e addirittura memorabile, almeno per me che sono un neofita. Solo da poco tempo infatti mi occupo della poesia italiana contemporanea. Il mio campo di competenze e i miei interessi sono stati altri: la letteratura inglese, che insegnavo, i classici della letteratura e della filosofia europea che frequentavo nel tempo libero. Sono dunque nel contempo un critico ingenuo ed esigente. Quanto di peggio, si dirà.

Ciò però mi dà l’opportunità di proiettare la poesia di Silvia Secco su uno scenario diverso da quello autoctono, e cioè quello della poesia europea e inglese in particolare. Di esportarla, insomma. Di farne una lettura perversa, fuori da quelle che devono essere state presumibilmente le sue urgenze espressive e filiazioni artistiche. Non c’è dubbio infatti che Silvia sia maturata nel solco della poesia italiana del Novecento, a partire dall’influenza di Zanzotto, evidente nella metaforica naturalistico/scritturale che è cifra dei suoi testi. Zanzotto è certo una presenza, vivificante e vivificata, nei versi di Silvia. Ma al di là di Zanzotto, vi echeggia per me la poesia dell’irlandese Seamus Heaney, coi suoi continui accostamenti tra vomere e penna, con la sua dedizione alle origini contadini del padre (nella splendida poesia “Digging”, per esempio). Ma l’antico nesso metaforico tra aratura e scrittura, innesto (grafting) e inseminazione, nutriva già sia l’opera di Shakespeare, i sonetti in particolare, che quella di altri poeti e drammaturghi inglesi fra Cinque e Seicento. Tutto ciò forse costituisce una spia di un processo che ha caratterizzato il corso della poesia italiana del Novecento, ma che ora a mio avviso è entrato in una nuova fase, è venuto cioè a maturazione ed è diventato un humus diffuso, un ethos condiviso per le nuove generazioni. Intendo un processo di sprovincializzazione e di depetrarchizzazione della lirica nostrana, che tuttavia non sarà mai concluso e che dovrà ricominciare sempre da capo, poiché Petrarca ci scorre nel sangue e nella lingua, tanto e più di Dante o di qualsiasi altro. Ancora più importante, come spia dei nostri tempi, mi pare però la tensione fra testo e performance orale e corale in tutte e tre le poetesse che ho menzionato, cioè il dialogismo e la multimedialità immanenti nei loro testi, che si esprimo poi spesso nell’incontro con la musica, vissuto quasi come un destino. Una vocazione, un ritorno della voce al corpo e al canto, cioè della poesia alla sua dimensione originariamente rapsodica, anche paradossalmente in una poetessa che, come Silvia Secco, esibisce una vera e propria fascinazione per la scrittura come “supplemento” fondante della parola che, per essere troppo vicina alla cosa che nomina, rimarrebbe altrimenti muta, poiché “il nome dell’altro” è “così prossimo alla voce da non poterlo dire.” (67) E tanto più quando si tratta dell’oggetto d’amore, del correlativo oggettivo dell’eros, che in Silvia viene coinvolto nello stesso dramma della scrittura, quasi come in una eco lontana del Fedro platonico, quello all’inizio questa alla fine della civiltà letteraria. Dico questo perché credo che l’avvento dell’ipertesto digitale attragga in una medesima mutazione di orizzonti anche i testi lineari a stampa, e anche malgrado le intenzioni e le pratiche dei loro autori.

Così, per esempio, pare che Silvia Secco ami scrivere a mano, e certamente ella insiste sull’atto della grafia come ferita della carta, della pelle, della terra, che distilla il farmaco (rimedio-veleno) che ci consente di lenire la passione per l’immediato e osare la donazione di senso alla congerie dei nostri vissuti.

A questo proposito si incontrano splendide figure nel testo-per-la-voce di Silvia. Specie nell’ultima sezione, “Lungo il mio stelo”, dove si trovano le più belle poesie del dis-amore, cioè dove la tensione fra eros e scrittura si fa più acuta e tematica. Come nei bellissimi versi dove incontriamo “spasmi di parole taglienti come lame”, che arrivano “alle mani molto prima che alla voce”, (66) estremo omaggio alla scrittura come radice della poiesis, sebbene si tratti di una radice multipla, intrecciata, rizomatica. Una radice che si perde nel corpo-della-terra circostante, ne succhia gli umori e in essi si risolve, in un circolo in cui le parole rimaste sulla punta della lingua scendono per le mani alla scrittura solo per ritornare alla gesticolazione corporea che precede ogni sillabazione. È un circolo archetipico, poetico ed ermeneutico insieme, il movimento di una caparbia disincantata ricerca e donazione del senso. Qui assistiamo di nuovo infatti alla tessitura di una scaltrita, amorosa tela di Penelope (che fu la prima grande metafora del testo poetico) che corrisponde alla voce dell’Odisseo cantore alla reggia dei Feaci e lo attrae nel miraggio del ritorno, del Nostos, della chiusura del cerchio, della donazione di senso alle peregrinazioni di una vita.

È come se ci fosse ancora con noi Penelope infatti che si rivolge al suo Ulisse dalla mente contorta (polytropos) come quella di Crono, quando ascoltiamo : “ho trame supine per te, le intreccio/alle vertigini che hai. La tela/ che si forma è un frutto…”. In uno squisito atto di attenzione, di amore e di disseminazione della parola autoriale nella scrittura che la attende e la pretende per sé sola. Nell’ideale, intimo, silenzioso dialogo dell’anima col testo, dell’amante con l’amata: “Dimmi l’alfabeto delle labbra,/ l’istante chiuso delle palpebre./ la mia lingua non sa scrivere/parole mutate in bacio…”. E dove la stessa acme erotica evoca e invoca una scrittura sulla pelle (74). Quella scrittura che, allora come ora, nell’epica antica come nella lirica contemporanea, consente di esprimere una straziante intensa costruttiva nostalgia dell’assenza: “Tienimi le mani…Tienimi stretta…Avessimo vent’anni prima di incontrarci/ non potrei sopportarne il passo.” Un’assenza che quando non ci fosse bisognerebbe proprio inventarla. Un’assenza che preluderà forse a una temporanea “tregua di cicale.” (79) Una pausa in grado di far epoca nella storia di ciascuno, di scandirne le fasi, i toni, i ritmi. I giochi della memoria e dell’attesa. Quella di Silvia è dunque una poesia sommessamente escatologica, che prova a sfuggire all’orizzontalità del tempo vissuto, con la sua dedizione dichiarata ai numeri e alle sillabe del verso, alle virgole e ai caratteri del testo, dove l’inizio e la fine, l’arché e l’éschaton, appaiono in corsivo nelle liriche dedicate alla madre e alla sorella, madre-giovanissima, alle radici della memoria e del destino. Una poesia intessuta di minute, fitte trame vegetali, dove all’improvviso si schiudono microcosmiche catastrofi ed epistrofi: “Era un trentuno che finiva il mondo.” (86) “veniva avanti come una stagione l’oceano./ Un rumore vasto ci gonfiava i capelli…” (88) Guerre stellari in un pugno chiuso, quel pugno che la Memoria, in figura di madre, chiama “la misura del riso.”

Il canzoniere di Silvia si chiude dunque con una intensificazione del conflitto tra eros e scrittura, (Fedro) che si distilla nel motivo del “disamore”, cioè, in perfetta sintonia platonica, dell’amore come grande demone della mancanza e della penuria, (Simposio) che ci induce a cercare l’Altro, e a costruire ed abitare dimore, città e mondi. Che traduce cioè tecnica-mente (attraverso la scrittura, che come la poesia è una specie della techne) la pulsione organica e l’inadeguatezza biologica dell’uomo rispetto alla natura, in azione poetica, politica, cosmogonica. Dimensioni tutte che sono intrinseche alla esile trama dei versi di Silvia, che come la regina Mab di Romeo e Giulietta, levatrice delle fate, ci sa sedurre con meravigliose figure tratte dalla fitta ragnatela che è sostanza dei sogni. Dove si rivela infine la dimensione cosmica ed escatologica di questa versificazione domestica, artigianale, attenta al minuto conteggio delle sillabe.

Una dimensione utopica ed escatologica che si annunciava comunque già nella prima parte, “Certa Polvere”, con i suoi fuori luogo, fuori tempo e fuori stagione: “Gennaio mi fiorisce sulle ciglia…” (23), (dove si avverte una lontana eco dell’incipit della eliotiana Terra desolata, modello di tutta la poesia modernista: “April is the cruellest month/ breeding lilacs out of dead land,/ mixing memory and desire…”), con le coincidenze occulte e fatali: “i grandi muoiono/ vicino ai loro compleanni” (32), con i tagli surreali sul fondale dell’apparenza: “Tu non sei che il taglio/ passante nel paesaggio” (38), e con l’ostinata ricerca del rimedio “al destino di polvere che siamo.” (36). Fin dall’inizio dunque, a ben vedere, l’Eros si affaccia come operatore cosmologico ed escatologico nei versi di Silvia, nel conto delle sillabe, (41) nell’urgenza antitetica della scrittura, insomma nel dramma psicotecnico del dis-amore. (49) Un dramma che si articola sulle polarità tra vita e arte, parola e scrittura, micro e macrocosmo.

La tensione fra parola e scrittura in particolare si sviluppa poi nella seconda parte, “Conta di sillabe”, dove gli ingorghi occulti della Memoria, madre delle Muse, (“ho cuniculi/di ricordi e pori come fiordi ) cedono all’insistenza della scrittura (“al segno indelebile del solco”) (45), nella speranza di poter fondere infine “scrivere/vivere in pasta di pane.” Bellissima metafora del poiein, “verbo delle mani” (47). Una tessitura di superfici fragili, crepate, su fondi multipli, dissestati. Poesia della sottrazione, dello svuotamento della forma, dove l’assenza dell’amore si specchia nell’amore dell’assenza, (37) in un chiasmo esistenziale che è ha anche condizione poetica. Poiché la penuria costitutiva dell’amore richiede il rimedio dell’affabulazione che si compie attraverso il supplemento della scrittura, del verso che si fa universo.

Ecco, diciamo, dalla conta delle sillabe alla costruzione di mondi si svolge la ricerca poetica di Silvia Secco. Ostinata, attenta perfino alle virgole, che “insistono/ nell’opera d’ordine delle frasi.” (51) Una ricerca che si nutre dell’assenza, dell’incompiutezza, del disamore, ma che non perde mai la fede di poter mutare “il vero con un segno” (56), restituendo all’incandescenza della sua origine platonica, la complementarità di eros e scrittura. Poesia dunque che si svela infine “erotica” nel senso più alto e pieno, chiamandoci irresistibilmente ad arruolarci in questa tenzone fra eros e retorica, per diventare una comunità (polemos/polis) di ascolto e di azione, cioè un pubblico, una cassa di risonanza cittadina, proprio come è poi negli intenti de I Giovedì DiVersi: “Senti come vengo a chiedere. Come/ ti chiamo: mani e nome…fradicia e/ bellissima, come mai sono stata……Scavami e trova. Le dita di chi ama/ si sfiorano sui libri e sotto ai tavoli/ e tu lo sai che sono scalza e nuda/ davanti a te come davanti al mare.” Magnifica interpellanza poetica, quasi una preghiera.

Questa di Silvia Secco non è una semplice raccolta di versi, è un vero e proprio canzoniere, perfettamente articolato nelle sue tre sezioni, quasi come una forma sonata, con esposizione, sviluppo e ripresa di più motivi, che si svolgono a vari livelli e si intrecciano all’interno delle polarità di fondo tra vita e arte, amore e scrittura, micro e macro cosmo, per esplodere infine in quelle catastrofi stellari che rivelano chiara l’ansia escatologica da sempre sottesa al computo delle sillabe.

Giuseppe Martella

 
 
 
 

Le foto della serata con Silvia Secco, Enea Roversi (moderatore), Alessandro Baro (Musicista)

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L’intero programma dei giovedìdiversi

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Il libro:

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Giuseppe Martella si è laureato in lingue all’Università di Messina e ha insegnato letteratura e cultura dei paesi di lingua inglese nelle Università di Messina, Bologna e Urbino. Le sue principali ricerche hanno riguardato il dramma elisabettiano, il modernismo inglese, l’ermeneutica letteraria e filosofica, i rapporti tra scienza e letteratura e tra letteratura e nuovi media. Fra le sue pubblicazioni:
Ulisse: parallelo biblico e modernità (Bologna, Clueb, 1997)
Ciberermeneutica: fra parole e numeri (Napoli, Liguori, 2013)
Tecnoscienza e cibercultura (ARACNE, Roma, 2014)

 
 
 
 
 
 
 
 

Samuele Editor

Samuele Editore nasce nel 2008 a Pordenone, nel nord est Italia. La stessa città di Pordenonelegge, una della più importanti manifestazioni letterarie nazionali. E città vicino a Casarsa, la terra di Pier Paolo Pasolini. Samuele Editore nasce riprendendo il marchio storico della Tipografia di Alvisopoli fondata nel 1810 da Nicolò Bettoni. La vecchia Tipografia nella sua storia pubblicò molte opere importanti come Le Api panacridi di Alvisopoli (1811, scritta per il figlio di Napoleone Bonaparte) di Vincenzo Monti. Poeta, scrittore, drammaturgo, traduttore tra i massimi esponenti del Neo Classicismo italiano. La Tipografia, che aveva per logo un’ape cerchiata da un tondo con il motto Utile Dulci, lavorò fino al 1852, anno della sua chiusura. Samuele Editore prende l’eredità di quel grandissimo momento storico prendendo gli stessi ideali e gli stessi obiettivi di Nicolò Bettoni. Intenzione bene esemplificata dal motto Utile dulci che Samuele Editore riprende a manifesto del suo lavoro. Si tratta infatti di un passo oraziano tratto dall’Ars poetica (13 a.c.): “Omne tulit punctum, qui miscuit utile dulci, Lectorem delectando pariterque monendo” – “ha avuto ogni voto colui che ha saputo unire l’utile al dolce, dilettando e nello stesso tempo ammonendo il lettore”. Lo stesso passo viene ripreso nel XVIII secolo dall’Illuminismo italiano col significato di “il lavoro e l’arte sono fondamento di una vita serena”. Ripreso nello stesso significato anche dalla tipografia di Nicolò Bettoni, è adesso concetto fondante e continuamente ispiratore della ricerca poetica e delle pubblicazioni di Samuele Editore. Già dopo pochi anni di attività Samuele Editore si è imposto all’attenzione della cultura nazionale lavorando con i maggiori esponenti della poesia, del giornalismo, della televisione italiana. Con un lavoro di promozione continuo sia con manifestazioni proposte dalla Casa Editrice (a Pordenone, Trieste, Venezia, Milano, Torino, Roma, Napoli, eccetera) sia con poartecipazione a Festival importanti (Pordenonelegge, Fiera del Libro di Torino, Ritratti di Poesia di Roma) sia con newsletter e pubblicità settimanali in internet, Samuele Editore è considerato uno dei migliori editori del settore Poesia in Italia e vanta una presenza nei maggiori giornali nazionali quali Il corriere della sera, L’espresso, e continue recensioni nella famosissima rivista Poesia (la maggiore rivista italiana del settore). Col desiderio di aumentare la conoscenza della Poesia italiana e del mondo, a maggio 2013 Samuele Editore apre un ufficio internazionale dedicato a quegli autori che intendono far leggere le proprie opere al pubblico e ai poeti italiani, da sempre unici e importantissimi nella poesia mondiale. Con l’esperienza di un ottimo libro di poesie inglesi tradotte in italiano (Patrick Williamson) e del maggior poeta vietnamita vivente (Nguyen Chi Trung) Samuele Editore si propone di tradurre e proporre in doppia lingua le opere più meritevoli di autori non italiani, continuando la ricerca delle grandi opere poetiche di autori famosi e non famosi, capaci però di scrivere grandi libri. In questo si inscrive la partecipazione, nel 2014, al New York Poetry Festival. Con la grandissima convinzione che la Poesia può diventare ponte internazionale tra le persone, per farle parlare, per farle capire, creando cultura.