Luceafarul – Alessandro Canzian

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luceafarul
 

ESAURITO

 

Tono narrativo e materia mitica sono, nell’oggettività della storia come nella percezione istintiva del lettore, elementi propri di espressioni poetiche arcaiche e popolari, dalla poesia ciclica della classicità ai poemi in ottave di tradizione canterina e cavalleresca. Nella memoria del lettore contemporaneo, gli epiteti che danno nome, nella poesia classica, agli eroi e agli dei – Ulisse versatile e scaltro, l’Aurora dalle dita rosate – così come i versi che tradiscono l’oralità del cantastorie – «cantami, o Musa, dell’uomo…» – hanno la voce stentorea di letture in classe ad alta voce e il gusto polveroso della manualistica liceale. Molto si è scritto sul fatto che la funzione sociale e la forza della poesia orale è oggi passata alla musica leggera, la cui dimensione mercificata finisce tuttavia per tradire, mentre la afferma, ogni funzione di epos collettivo. Dal canto suo, la poesia si misura oggi con l’oralità soprattutto appropriandosi di certe forme della musica e della cultura pop, corrodendo in forme più o meno raffinate ed efficaci la voce del presente – dai ritmi dei rappers ai fonosimbolismi che evocano e risvegliano echi televisivi e pubblicitari presenti nella nostra memoria collettiva –: era un altro mondo quello in cui Fabrizio De André incideva La canzone di Marinella (1964) e il pubblico rispondeva entusiasticamente alla trasfigurazione di una morte umile, violenta e brutale – una prostituta assassinata, nella fallace memoria di De André, lungo il Tanaro1 – in una vera e propria assunzione in cielo dopo e attraverso l’epifania dell’amore. In quella canzone dal tono ingenuo e dalla rima facile c’era la tremenda forza della trasfigurazione del dolore individuale in escatologia universale, insomma quella che il maggiore antropologo del nostro Novecento, Ernesto De Martino, indicò come la funzione fondamentale del mito e del sacro nelle società umane: il mito «colma il vuoto tra il singolo e la storia». Da Vico in poi sappiamo, d’altronde, che la lingua del mito è irrimediabilmente lontana dall’uomo moderno: una riproposizione, oggi, della poesia di argomento mitico reca una inevitabile dialettica interna, una contraddittoria tensione tra passato remoto e contemporaneità.
Oggi Alessandro Canzian ci riporta al mito e alla formularità della poesia narrativa con il poemetto Luceafarul, favola di un amore che al contempo afferma, trasfigura e tradisce se stesso. Una bellissima fanciulla mortale e l’immortale astro Iperione (Luceafarul) si innamorano, ma l’amore fra il transeunte e l’eterno è impossibile. Siamo di fronte ad una delle molte declinazioni del popolare mito di Amore e Psiche, «storie diverse ma che tutte narrano dell’amore precario, che congiunge due mondi incongiungibili, che ha la sua prova nell’assenza; storie d’amanti inconoscibili, che si hanno davvero solo nel momento in cui si perdono»2. Il testo di Canzian è una odierna rielaborazione di un noto poemetto ottocentesco, Luceafărul, del grande poeta rumeno Mihai Eminescu; i personaggi sono gli stessi e il senso del mito resta, per mantenere la bella immagine calviniana, quello di un amore che in quanto congiunge due incongiungibili ha la sua prova nell’assenza. A cambiare è il senso dell’assenza dal mondo di Luceafarul: se in Eminescu l’astro immortale Iperione, pure tentato dall’amore per il mondo mortale, appartiene decisamente all’eterno, in Canzian Luceafarul è sin dall’esordio un tormentato essere in cammino («lui che era tenebra nel cuore / e sentiero, / come dice la leggenda»), sospeso tra appartenenza al mondo e appartenenza all’eterno: non un dio, insomma, ma un eroe, assente da un tempo umano («lui che era luce di navi nere / oltre l’orizzonte degli eventi») che è lo spazio-tempo moderno, definito con la formula einsteiniana «orizzonte degli eventi» (già importata nel linguaggio poetico da Maurizio Cucchi in Vite pulviscolari, Mondadori, 2009). Il Luceafarul di Canzian, eroe modernissimo, scopre dolorosamente nell’essere «gelido ed eterno» l’unica possibilità di rendere unica e stabile la propria identità individuale; glielo rivela Dio, suo padre e creatore, nel momento in cui egli chiede di divenire mortale per raggiungere la sua amata.

Sonia Gentili

 
 
 
 
 
 

Passarono giorni da quel giorno,
come dice la leggenda.
 

Trovò i due ragazzi in un giardino.
 

Lei era stanca di aspettare,
di sentirne la mancanza,
lui era dolce e convincente
e le dava la gioia di un sorriso.
 

Ed erano baci ed erano affanni
         tra i respiri affaticati
– il corpo di lei disteso, e fermo –
quando lo vide all’orizzonte.
 

Lui che era tenebra nel cuore
                   e sentiero,
come dice la leggenda.

 

          E ancora lo chiamò:
“Vieni che ti voglio amore mio,
la mia casa la mia anima prendi,
dai luce alla mia vita, vieni!”

 
Lui che era tenebra nel cuore
                   e poi silenzio,
come dice la leggenda.
 

“Tesoro mio infinito guardati,
che ti importa che sia io
o sia un altro accanto a te?
 

In un circolo chiuso vivendo
solo il caso vi governa
mentre io nel mio mondo resto
gelido ed eterno…”