Un buon uso della vita su poesieaeree.com

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Storie di donne senza nome. Signorine e signore della folla, creature che attraversano esistenze vissute senza il peso della coscienza, in narrazioni prive di dote, e muoiono innocenti, senza contemplare la parola fine, quando “dall’esterno la vita le seduce”.

Quelle che riconoscono il significato delle cesoie di Atropo sono le altre, sono le Plath, le Woolf, le Cvetaeva, le Rosselli. Sono quelle che, per troppa consapevolezza, mettono “la testa nel forno”, “vanno al fiume con le pietre in tasca”, “legano una fune a una trave”, “volano dal balcone”.

E così sia.

Storie di donne in versi nel vespro che accomuna ogni vita, così come “sono all’inizio / tutte uguali / nasci da un ventre aperto / dal buio vedi la luce / ma subito la storia cambia” e la differenza sta tutta nel modo di abitare il mondo tra la nascita e la morte, “secondo il luogo, lo status / il modo e l’accoglienza / non c’è una regola prescritta / uguale a tutti / ognuno trova a caso la sua stanza / chi bene – felice lui o lei – chi con dolore”.

E così sia.

Un buon uso della vita è un inno al recupero della “figura” che “preesiste all’idea da colarvi dentro” (Cristina CampoGli imperdonabili, p. 150, citata dall’autrice).

La carta degli arcani maggiori che permea la silloge di Gabriella Musetti è sì la numero tredici, Senza Nome o Morte che dir si voglia, ma si accompagna alla sorella Papessa che riflette sul senso dell’esistere, senza dare per scontata la conoscenza del destino, lume di conforto o meno, in questi ritratti che la poetessa ci regala, collana di perle parole per un funerale, epitaffi da incidere sulle lapidi di un piccolo cimitero di città.

Dalla culla alla bara, con possibilità di giocarsi la sorte.

Con la possibilità di incontrare “un destriero di luce”, nell’attesa, magari, che “torni l’autunno con le sue / brume”, dimostrando a se stesse di essere donne “libere bei pensieri”, donne che “accettano la disperazione i momenti neri”, “nel vortice del vivere distratte”, chissà…

Un altro arcano che non posso fare a meno di associare ai testi è la Ruota, icona della dea bendata disponibile a offrire una possibilità, proprio per far sì che, dal caso più volte citato, si possa giungere alla “rivelazione” colmante (ancora la Campo, op. cit.).

Che la poesia sia “meno del fumo”, come suggerisce ai lettori Pieraldo Marasi, e che, nonostante la minuzia, nonostante il nostro dire “non vale niente”, non si possa “morire senza un briciolo di poesia” è il messaggio chiaro e forte che emerge sin dalle prime pagine del volume di Musetti.

Valeria Bianchi Mian

 

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