su “Cossa vustu che te diga” – Azzurra D’Agostino

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sandron1Traccia un recinto di riferimenti legati al nordest Fabio Franzin nella sua bella prefazione a questo primo libro organico di Sandron (dopo varie pubblicazioni su plaquette, riviste, web). Un recinto di riferimenti che è spaziale, certo, ma anche linguistico e culturale. Il recinto fa venire in mente l’hortus conclusus medievale, quello spazio raccolto in cui i monaci, dietro alte mura, coltivavano le loro piante per curarsi e per mangiare. E difatti Franzin nel suo commento fa riferimento proprio alla terra, riferimento che torna puntuale nei versi della raccolta. La terra è ciò su cui si sta chini, in cui ci si sporca le mani nella ricerca di un posto ordinato nel mondo; è il luogo delle radici ovvero ciò di cui il poeta sembra andare in continua ricerca. Ma il recinto è anche linguistico e culturale nel senso che vengono richiamati qui alcuni dei principali poeti di queste terre così sofferenti proprio a causa della loro presunta opulenza: Marin, Giacometti, Tavan sono solo alcuni tra i rimandi che fanno capolino con discrezione ma quasi con orgoglio. Questo non significa affatto che Sandron si soffermi sulla tradizione in modo meramente emulativo: è anzi la sua una lingua che cerca incessantemente di far presa sul reale, sul presente, un reale e un presente tanto sfuggenti quanto lontani. Il mondo scorre, trascina con sé costumi e valori, lasciando i giovani a invecchiare dietro bicchieri di vino, dentro capannoni industriali, su treni che anche quando partono sembrano non portare a nulla, se non a un ritorno obbligato, che tanto non cambia niente. Il recinto allora non è più nulla di protettivo ma diventa una gabbia da cui è impossibile uscire davvero, un posto dell’anima dove non c’è più nemmeno la nebbia a regalare quella inconsistenza al mondo che apre alla possibilità e al sogno. Persino la sezione forse più nostalgica, ‘L’oro de me nona’, che strappa monologhi a un altro tempo e visioni sul mondo da una diversa altura, non diventa nido sicuro in cui riparare ma luogo in cui anche la tenerezza ha un velo di inquietudine: quella data dall’impotenza, dall’impossibilità di non solo cambiare ma persino di essere davvero. (Azzurra D’Agostino)

 

 

 

 

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