Odore di Perù – Marina Magro


 

ODORE DI PERÙ

Marina Magro
romanzo
 

pag. 142
Isbn 978-88-96526-84-2

 


 
 

1

 

Da anni avevo un sogno nel cassetto. Ne ero certa: per il mio cinquantesimo compleanno avrei fatto un lungo viaggio in qualche terra lontana. La sete di conoscenza mi spinge da sempre oltre i miei confini, la famiglia, gli amici, le relazioni, il lavoro, la città. Il momento era giunto, puntuale.
Dal finestrino dell’aereo osservavo il cielo limpido illuminato dal sole e, sotto, un mare di nuvole e il mio sguardo senza pensieri si perdeva nello spazio infinito. In mano tenevo la guida del Perù chiusa. L’avevo già consultata più volte a casa e ora quel che contava era vivere l’esperienza, il viaggio, la gente. Al mio arrivo all’aereoporto di Lima avrei incontrato Anna, la mia amica italiana che da alcuni anni viveva in quella città. Anna lavorava per il Ministero dell’Istruzione e insegnava in una scuola per Italiani.
Dopo il disbrigo delle formalità doganali e il ritiro dei bagagli mi avviai all’uscita dell’aeroporto dove fui letteralmente investita da offerte di passaggi da parte dei tassisti. Cercavo con lo sguardo la mia amica ma c’era una gran folla e mi resi subito conto che l’unica speranza di incontrarla era rimanere in vista davanti alla porta principale cercando di scoraggiare l’orda di autisti.
Osservavo il cielo di Lima al tramonto, l’odore salmastro del mare vicino mi giungeva mescolato a un odore indefinito mai sentito prima che mi avrebbe accompagnato per tutto il viaggio.
L’odore di Perù.

Avevo lasciato Venezia immersa in una giornata grigia e ancora fredda di inizio primavera, spolverata dalle tracce di una recente nevicata e ora, dopo un giorno di viaggio, mi trovavo in un tramonto caldo d’inizio autunno, molto gradevole. All’improvviso incontrai lo sguardo di Anna che, con un gran sorriso e la mano alzata a farsi largo tra la gente, si avvicinava: un grande abbraccio e ci avviammo verso l’auto.
«Sono felice di poter stare con te un po’ di tempo, mi sembri stanca e un po’ provata, come stanno i ragazzi? Ho saputo della morte di tuo padre, mi spiace molto, e il lavoro? Ti sei presa una bella pausa…»
Anna, destreggiandosi con disinvoltura nel traffico rumoroso e caotico di Lima, mi sbirciava sopra la montatura degli occhiali da vista che le calavano leggermente sul naso con l’aria interrogativa e un po’ ansiosa. Anna conosceva le difficoltà che avevo dovuto affrontare nell’ultimo anno, c’eravamo scritte delle mail con una certa frequenza, tra noi c’era da sempre una qualche intimità e spesso ci confidavamo e sostenevamo a vicenda. Ora sentivo solo il bisogno di mettere spazio e tempo nelle mie relazioni.
«Mi fermerò a Lima solo qualche giorno, poi vorrei andare in direzione di Cuzco, mi sento attratta dalle Ande e dalla gente che vive lì, non so perché… forse ho bisogno di vivere in contatto con la natura: Intanto sono qui con te e, per un po’, saremo insieme».
Lima, una metropoli di dieci milioni di abitanti più tanti non censiti. Sembra siano circa settecentomila gli abitanti delle baracche alla periferia della città, sulle pendici di montagne di deserto: un paesaggio incredibile, fatto di terra, sabbia, lamiere e tende. Questa prima visione della città era sorprendente, ancor più di quella che ebbi camminando per le vie del centro, senza borsa, come mi aveva consigliato Anna.
Una folla incredibile di gente, per lo più indigeni che mi proponevano l’acquisto di qualsiasi cosa: da oggetti di qualsivoglia natura, probabilmente rubati o di contrabbando, a cibo cotto dentro sacchettini di plastica. Sui marciapiedi c’erano banchetti di dolciumi, sigarette, targhette telefoniche e frutta in mezzo a un traffico intenso e rumoroso: clacson impazziti, conbi gremiti di gente in cui, sempre, una persona sulla portiera aperta chiamava urlando le fermate. Odore acre e secco di smog e polvere. Negli sguardi delle persone tanta rassegnazione e miseria, come spogliate della loro identità e soprattutto delle loro radici.
Anna aveva una casa a Miraflores, una zona residenziale di Lima, curata, con spazi ampi, belle case, giardini e bei negozi. Non mi sarei aspettata un centro così caotico. A cena raccontai alla mia amica della visita alla città e delle mie impressioni.
«Sai, tanti giovani arrivano dalla selva o dalle montagne» mi spiegava Anna, «in cerca di lavoro e per fare un po’ di soldi, ma solo pochi riescono a trovare un’occupazione onesta, gli altri lottano per sopravvivere tutti i giorni, con qualsiasi mezzo. Domani ti accompagnerò a visitare una comunità alla periferia della città, ti presenterò una persona speciale».
Il giorno seguente sarebbe stata domenica per cui Anna, libera dagli impegni di lavoro, mi avrebbe portata a Villa Salvador per incontrare Gerry, un’amica italiana che da circa venti anni viveva in questa comunità.
Man mano che ci addentravamo nella periferia le case lasciavano il posto a baracche, le strade non erano più asfaltate ma sterrate, di sabbia. Il taxi ci lasciò a un incrocio vicino a una cabina telefonica. Anna entrò per avvisare Gerry del nostro arrivo: l’avremmo aspettata lì, era troppo pericoloso per due donne bianche avventurarsi in quel quartiere da sole.
Dopo pochi minuti arrivò una vecchia Volkswagen Maggiolino, gialla, piuttosto rumorosa e impolverata, con Gerry alla guida. Il suo sorriso era aperto e spontaneo e la sua stretta di mano vigorosa: questa donna esprimeva forza e mascolinità. Prendemmo posto nell’auto, da quella nuova postazione potevo osservare con più attenzione e tranquillità le strade che percorrevamo e le persone che le affollavano.
«Benvenuta a Lima, come ti senti?» iniziò Gerry mentre guidava con destrezza la sua scassata auto evitando buche e cumuli di sassi lungo la strada. «Mi sembri sbalordita», aggiunse. «Certo che lo sono» replicai, «in Europa certe cose non si vedono».
«Sai» continuò Gerry, «gli indigeni che vedi provengono per lo più dalla Selva, si appropriano di un pezzo di terreno mettendoci sopra una tenda e poi, a poco a poco, costruiscono una baracca e s’insediano come formiche in questo deserto di sabbia dove non c’è né elettricità né acqua».
«Incredibile», non sapevo che dire tanto era lo stupore e la tristezza che provavo in quel momento.
Gerry viveva a Lima da più di vent’anni e si occupava da sempre di una comunità che ospitava trecento bambini e ragazzi, dai tre ai quindici anni. Ci portò a visitarla. Le abitazioni erano costruite su un pendio di sabbia vicino il mare.
Dopo aver lasciato l’auto sul ciglio della strada imboccammo una ripida discesa verso il mare: ogni passo affondava nella sabbia e bisognava prestare la massima attenzione, rifiuti di ogni tipo erano sparsi ovunque. A metà circa del percorso era stata spianata una grande terrazza e sopra vi erano stati costruiti due edifici vicini di lamiera, cartongesso e materiale plastico, insieme a un piccolo campo da calcio in cemento dove alcuni ragazzi stavano disputando una partita molto animata.
La prima casa in cui entrammo, la più grande, era destinata a fanciulli e adolescenti perché potessero sviluppare attività di doposcuola, laboratori culturali e creativi e attività sportive. Alcune stanze erano senza il tetto.
«Tanto non piove mai a Lima», spiegò Gerry.
La seconda casa ospitava un asilo e novanta bambini dai tre ai sei anni, in tre classi. Entrammo nell’aula dei più piccoli che, felici della visita, intonarono una canzoncina guidati dalla loro maestra, tutti seduti a terra in semicerchio. Sotto un tavolo notai nascosto un gruppetto di piccoli fra cui una bimba con il volto cosparso di piccole ferite insanguinate che continuava a grattare. Anche la maglietta era macchiata. Non ascoltavo più la canzone, la mia attenzione era catturata da quell’immagine: la bambina aveva capelli sottili e radi e un corpicino emaciato che lasciava trasparire chiaramente la sua sofferenza. Richiamai l’attenzione di Gerry che si avvicinò per osservarla, quindi la prese per mano e insieme andammo nel suo ufficio dove la medicò con del cotone imbevuto di disinfettante antibiotico (in Italia faceva l’infermiera).
La piccola non piangeva, aveva uno sguardo assente, non esprimeva nulla e in quel nulla c’era tutto, tutto il dolore, la paura, la miseria, la rassegnazione della sua vita. Non dimenticherò mai il suo sguardo (con la consapevolezza di ora riconosco negli occhi di quella bimba un richiamo molto forte e deciso).
«In questo Paese non c’è assistenza sanitaria» cominciò Gerry «non ci sono cure per i poveri negli ospedali, se non paghi non puoi essere assistito, la mortalità è alta al di sotto dei cinque anni» continuò la donna, «io faccio ciò che posso, riesco a provvedere ai loro piccoli problemi di salute, se ci fossero più farmaci e almeno un medico a disposizione sarebbe meglio».

Ciò che vidi mi rimase impresso come un negativo su di una pellicola, indelebile. Dopo la visita alla comunità Gerry ci invitò per il pranzo a casa sua, carina e accogliente. Costruita in mattoni sembrava una reggia in quel paesaggio di miseria. Ci raccontò un po’ della sua vita, della prima volta in Perù come volontaria e in seguito la decisione di lasciare l’Italia per stabilirsi definitivamente a Lima e dedicarsi a questo progetto di comunità per i bambini che tutt’ora sta portando avanti con entusiasmo e tenacia. Provavo riconoscenza e gratitudine per Gerry e per tutte le persone che, come lei, dedicano la loro vita ai più bisognosi e meno fortunati.

Dopo aver lasciato Villa Salvador Anna e io raggiungemmo la fermata del conbi. Non avevo voglia di parlare, davanti ai miei occhi scorreva l’immagine di tutti quei bambini e riflettevo sulla possibilità di sopravvivenza che avevano e sulla qualità della loro vita una volta cresciuti. Forse non era possibile cambiare il corso del loro destino, ma anche un aiuto come quello che stava dando Gerry offriva loro delle possibilità in più.
Sul conbi salivano e scendevano continuamente persone di tutte le età, alcune riuscivano anche ad addormentarsi nonostante il mezzo sobbalzasse continuamente e dai finestrini aperti entrasse un chiasso incessante insieme alla polvere e allo smog dei tubi di scarico delle auto e dei bus che correvano sempre affiancati. A volte, durante le brevissime soste, saliva qualcuno con sottobraccio un cesto di dolciumi per tentare una vendita.
L’odore di Perù era così denso che sovrastava qualsiasi altro odore, chiudevo gli occhi e mi lasciavo cullare dai movimenti sconnessi del conbi in modo che fluissero dentro di me odori e sensazioni.Sentivo che era giunto il momento di lasciare Lima e la mia amica Anna, confortevole presenza in quel paese lontano.

 
 

2

 

Era un tardo pomeriggio di domenica. Mi trovavo sull’autobus Imperial della compagnia Cruz del Sur in viaggio sulla Panamerica, la superstrada che segue la costa del Perù. La mia meta era Arequipa. Fra la nebbia intravedevo il sole rosso al tramonto, alla mia destra scorreva l’oceano e dopo un po’ il buio ingoiò tutto il paesaggio. Dopo sedici interminabili ore di viaggio tutt’altro che comode arrivai ad Arequipa, la città bianca, chiamata così in riferimento agli edifici coloniali tra cui la maestosa Cattedrale in Plaza de Armas, costruiti con una roccia vulcanica di colore molto chiaro che riflette la luce del sole.
Al terminal terrestre dove il bus si fermò, dopo aver recuperato lo zaino, mi unii a un ragazzo francese che conosceva già la città per proseguire insieme in taxi verso l’albergo-ostello che mi avrebbe ospitato per alcuni giorni. Presi la camera numero diciannove al piano attico che si affacciava su una bella terrazza da cui potevo godere della vista sulle montagne e sul convento di Santa Catalina. La stanza era ampia, luminosa ed essenziale. Avevo un gran mal di testa perciò decisi di dormire un po’, senza riuscirci, ero troppo stanca e allo stesso tempo eccitata dell’esperienza nuova che stavo vivendo. Dovetti attendere la notte per crollare.
Mi svegliai dopo dodici ore ininterrotte di sonno senza mal di testa e decisi di fare un giro per il centro della città. Mi diressi verso Plaza de Armas ed entrai in una caffetteria che aveva una vetrina di pasticceria fresca piuttosto invitante.
Seduta al tavolo con un mate de coca e una fetta di torta al miele sul piatto osservavo i miei pensieri galoppare e le mie emozioni fluttuare. Non mi sentivo in forma fisicamente, e questo disagio condizionava anche la mia mente. Avevo paura di non star bene, di essere sola e lontana da casa… e se mi fossi ammalata?
Dopo aver fatto un bel respiro decisi di prendere tempo, questo viaggio l’avevo voluto con tutta me stessa.
«Ce la farò? «Accidenti, che prova mi ero regalata! Perché devo cercare sempre nuove sfide?»
Mi sarebbe piaciuto condividere con qualcuno questi pensieri, trovare contenimento. Mentre sorseggiavo il mate pensavo alla possibilità di scrivere una mail a Guido, il mio amico dottore che tanto mi aveva aiutato nei mesi precedenti il viaggio. Il suo prezioso aiuto aveva contribuito a guarirmi da una cisti al pancreas grazie anche alla terapia ayurvedica che ancora stavo continuando. La mia propensione ad attingere a maggiore consapevolezza mi aiutò a comprendere la causa scatenante della malattia accettando l’esperienza stessa come mezzo di crescita.
Ricordo che era la notte di Natale quando fui ricoverata in ospedale per una sospetta pancreatite, esattamente un mese dopo la morte di mio padre. Gli esami del sangue risultarono negativi quindi mi sottoposero a degli accertamenti che rilevarono una cisti all’interno della testa del pancreas. Mi consigliarono di rivolgermi a un ospedale specializzato nelle malattie di questo organo. Per i medici avrei dovuto sottopormi a un intervento chirurgico al più presto sospettando fosse un tumore maligno.
Non riuscivo a capire il perché di questo segnale così forte che il mio corpo mi mandava. Cosa era successo dentro di me? Quale conflitto avevo vissuto? Dove avevo perduto la mia interezza?

Nuovamente smarrita avevo interrotto l’ascolto interiore, mi ero fatta travolgere da un flusso di eventi con energie estranee al mio cuore e al mio sentire più intimo. Avevo trentadue anni quando mi diagnosticarono un carcinoma all’utero che mi era stato successivamente asportato. Come un fulmine a ciel sereno il ricordo emerse nuovamente in me con una lucidità sorprendente facendomi rivivere esperienze fondamentali custodite nello scrigno della mia memoria. In quell’esperienza, che definisco unica e speciale della mia vita, a seguito dell’intervento chirurgico a cui mi sottoposero vissi la mia morte e la mia rinascita.
Ero ancora intubata quando mi svegliai dall’anestesia. Ricordo un gran dolore alla schiena e alla pancia, mi sentivo lacerata. Sentivo la presenza di qualcuno vicino a me che diceva «dalle ossigeno», mi sollevava le mani fino alla punta delle dita soffermandosi sulle unghie, poi mi apriva gli occhi delicatamente con le dita della mano e continuava «dài respira» poi il nulla.
Scivolai nel vuoto, non avvertivo più nessun dolore e non sentivo più nemmeno il corpo, solo un senso totale pieno di infinita pace. Uno straordinario stato di benessere si era impadronito di me. Sentivo ancora in lontananza le voci allarmate dei medici che si prodigavano sul mio corpo. «Lasciatemi andare, non temete sto bene» era il mio pensiero mentre mi sentivo scorrere via nel buio attratta da una luce bellissima, laggiù in fondo, che vedevo sempre più splendente e invitante. Più mi avvicinavo più m’irradiava. Ne ero completamente ammaliata, estasiata, ero parte della luce, una luce dorata che assumeva i contorni di un volto sorridente, mi sembrava il volto di Gesù.
Ero avvolta in una bellezza straordinaria e vibravo di una gioia indicibile, immensa. Avrei voluto seguire quel volto sorridente nella luce per l’eternità.
Poi udii una voce chiara e decisa dentro di me: «non è ancora il tuo momento, devi tornare, la tua vita non è compiuta».
Mi ritrovai nuovamente nel mio corpo sul letto dell’ospedale. Per molto tempo ebbi paura di quell’esperienza eccezionale e non ne parlai con nessuno. Dovetti lavorare un bel po’ sulle mie paure per poter comprendere come il viaggio fuori dal corpo in un’altra dimensione di vita fosse stato un dono grande, un regalo, che mi avrebbe successivamente permesso di accettare e integrare il senso di morte come un evento liberatorio, di pace e di trasformazione.
Iniziai un percorso lungo e difficile di ricerca e conoscenza di me stessa, un lavoro di pulizia profondo per liberarmi da condizionamenti e paure coltivando la possibilità di fare emergere la mia vera natura, il mio sè.
Attraverso la pratica dello yoga rendevo il corpo più flessibile e la mente libera. La lunga pratica di meditazione mi permise di risvegliare la mia anima sperimentando la gioia di essere unica e meravigliosa. Meditare è stata, ed è, un’esperienza di ricongiungimento con la mia essenza. La disciplina mi ha portato ad assumere un atteggiamento meditativo quasi costante. Dopo aver acquietato la mente esterna, nello spazio vuoto senza pensieri, posso ritrovare un profondo senso di pace, una dolce pienezza interiore. Mi sono accorta di quanta bellezza l’essere può emanare e quanto questa condizione possa riflettersi nell’ambiente circostante. In questa consapevolezza crebbe la fiducia in me stessa e nelle mie risorse più intime e vere e le stesse certezze interiori mi aiutarono a sopportare le difficoltà incontrate nel cammino degli anni successivi.
Da allora la fiducia, la fede in me stessa mi hanno sempre accompagnato, anche nei momenti bui, quando mi sembrava di non avere via d’uscita.
Imparai che se riuscivo a staccare la mente e il pensiero costante sul dolore o la difficoltà, a non essere solo quel dolore o quel problema, ebbene avrebbe potuto emergere dentro di me la forza che mi avrebbe permesso di superare le avversità e tramite esse evolvere. Avevo anche bisogno di sentire maggiormente il mio corpo, di percepirmi attraverso il contatto e acquisire maggior coscienza di me stessa. Mi sottoposi quindi a dei massaggi con frequenza settimanale e in quella lunga e costante esperienza imparai a percepirmi con amore, ad accettare la mia unicità. Di volta in volta sentivo il mio corpo aprirsi fisicamente ed energeticamente. Non avevo più barriere, il fuori e il dentro erano un’unica esperienza di amore e comprensione.
Come conseguenza a tali esperienze di grande trasformazione emerse dentro di me la spinta ad indirizzare i miei studi e successivamente il mio lavoro nella pratica ayurvedica. Dopo aver concluso il percorso triennale nella scuola di formazione a Milano integrai alla mia professione di estetista questo antico sapere.
E ora, a distanza di anni, nuovamente il corpo mi dava un segnale forte di scollegamento, di non unione con me stessa Come avevo potuto ricaderci? Come e perché mi ero smarrita, perdendo l’ascolto del mio sentire più intimo e vero, lasciandomi travolgere da eventi estranei al mio sè. Dapprima mi sentii stordita, confusa, poi a poco a poco si fece strada dentro di me un senso profondo di accettazione. Era di nuovo una possibilità, dovevo imparare ancora qualcosa. Cosa?
L’avrei scoperto affrontando l’esperienza con presenza e un atteggiamento il più possibile sereno. Avevo terminato la torta al miele ed anche il mate de coca, pagai il conto e uscii incontro al sole. L’aria di Arequipa era piacevolmente fresca e asciutta, mi sedetti su una panchina all’ombra di una pianta nei giardini di Plaza de Armas, davanti a me la maestosa cattedrale occupava un lato intero della piazza. Sulla larga scalinata ai piedi della chiesa erano sedute decine di persone con l’aria di chi non ha niente da fare tutto giorno.
I miei pensieri ritornarono ai fatti accaduti prima del viaggio. L’ospedale di Verona mi aveva messa in lista d’attesa per fare sia una risonanza magnetica sia un’ecografia con contrasto. Nel frattempo ero andata a Bologna a incontrare il dottor Guido, specializzato in medicina ayurvedica e insegnante presso la scuola di Milano dove mi ero formata io stessa. Il medico disse che avrei dovuto fare un percorso di depurazione sia sul corpo che sulla mente, i miei dosha erano fuori equilibrio.
La terapia prescritta, insieme ad una dieta specifica, mi avrebbe aiutata a ritrovare un nuovo equilibrio e probabilmente la cisti essendo di piccole dimensioni si sarebbe drenata. Il mio corpo reagiva in fretta alla cura, osservavo variazioni progressive, sia fisiche che mentali. All’inizio provavo anche uno stato di malessere particolarmente accentuato.
Avevo sonni agitati e sognavo molto. Ogni notte prima di addormentarmi appoggiavo le mani sul ventre con un atteggiamento di ascolto amorevole, cercando di rilassarmi profondamente fino a che il sonno mi prendeva.
Una notte feci un sogno: mi trovavo sul letto in posizione supina, con lo sguardo verso l’interno osservavo gli organi dentro la cavità addominale e, dopo aver focalizzato la cisti, pensai di intervenire. Presi un bisturi e la incisi seguendone i contorni, la sua forma era nitida, poi la presi tra le mani decisa ad eliminarla.
Iniziai a respirare profondamente e a ogni espirazione sentivo che si riduceva sempre più fino a dissolversi. Mi svegliai il mattino seguente certa che la cisti non ci fosse più.
Telefonai immediatamente al dottor Guido investendolo della mia euforia. Mi disse di stare tranquilla, che la cura avrebbe avuto effetto ma ci sarebbe voluto un po’ di tempo, aggiungendo che comunque il sogno era un buon segno.
Dopo qualche giorno mi chiamarono dall’ospedale per fare l’ecografia con contrasto. Due medici si alternarono a cercare ciò che le lastre della tac mostravano non esserci più. Erano sbigottiti, non sapevano darsene una ragione. Io osservavo il loro disagio ma non dissi nulla: ero felice e provavo un senso di forza interiore nuova, rigenerante. Dalla gioia non stavo più nella pelle.
Uscendo dall’ospedale decisi che era giunto il momento di prendermi una pausa, solo per me, tutto il tempo di cui avrei avuto bisogno. Avrei fatto un viaggio, dovevo sedimentare, metabolizzare e comprendere l’esperienza e quindi prendere le distanze dal mio quotidiano. Sentivo forte l’esigenza di viaggiare, di conoscere altra umanità e la nuova me.
Dopo qualche giorno mi richiamarono dall’ospedale, volevano fissare un altro esame «perché» dissero «non è possibile che una cisti possa sparire». Ormai avevo deciso, sarei partita quindi dissi al medico della mia intenzione e che non sarei tornata prima di tre mesi. Mi avrebbero ricontattato.
I dubbi in medicina non sono consentiti? Ognuno di noi possiede, ora lo so con certezza perché l’ho capito, la capacità di creare la vita e il potenziale per distruggerla. Certo non è facile comprenderlo e accettarlo, bisogna coltivare la consapevolezza con amore e pazienza e soprattutto con onestà. Il miracolo della vita non è scritto nel protocollo. Una serie di incontri casuali mi portarono a scegliere il Perù come meta del mio viaggio. Dalla terrazza della mia camera quella notte godevo di un tramonto colorato di rosso.
Il mio sguardo spaziava dal convento di Santa Catalina, di cui scorgevo il suggestivo labirinto dipinto di blu, ai campanili illuminati della Cattedrale. Dalla strada si udiva il rumore del traffico ancora in fermento. Cominciavo a sentirmi meglio, avevo quasi appetito. Non riuscii a spedire l’e-mail a Guido, pazienza, «vorrà dire che ce la farò da sola».