Mario Famularo su L’imperfezione del diluvio

da Laboratori Poesia
 
 

Il punto di partenza è proprio l’assenza di un dinamismo evolutivo, che diventa un’ombra di dissolvimento, una forma di morte quotidiana: “ricalcare i giorni … e preservarli eguali … è già / morire”, soprattutto se tale forma di resa si traduce in un’assenza di dubbio, di mutamento, uno stare “senza chiedersi”.

L’invito è però positivo: “se il tempo accade / non mantenerlo eguale”: il testo in qualche modo ricorda Burroughs, quando sostiene che “quando si smette di crescere si inizia a morire”, e anche qui il senso che perviene dal testo è quello di esperire il cambiamento e la trasformazione continua del vivere come una crescita necessaria, vitale.

Il secondo testo si concentra sulla perdita di una persona cara, o meglio sulla difficoltà viscerale di lasciarla andare, che Pecchiari definisce l’apprendimento de “l’etichetta della perdita” e dei “rituali dell’andare”. Ricorre nuovamente il contrasto tra dinamismo e immobilismo, reso drammaticamente in chiusa con la permanenza dell’esilio, la condanna di chi sopravvive alla privazione dell’altro, e il già citato andare.

Si avverte nitidamente il desiderio di riuscire ad accettare la trasformazione continua insita nell’esistenza e nelle relazioni umane, come si avverte il profondo dissidio con il desiderio di trattenere ciò che di prezioso le stesse ci offrono, e che non vogliamo sparisca o dissolva.

Queste istanze continuano a intrecciarsi nel terzo testo, letteralmente, quando si paragona l’intessersi relazionale alla “vocazione dei viticci / sviluppare rami e fiori e ombre”; ma anche qui, l’invito è quello a non accontentarsi dello status quo, cercando di trattenerlo sempre eguale a se stesso, ma piuttosto “sforzare i legami / e frantumarli / se non li manteniamo”, perché “è virtù e colpa nostra il perdurare”.

Mettere in discussione e alla prova non solo il nostro esistere quotidiano, ma anche il tessuto delle relazioni, come a dire che se non sopravvivono a tale sforzo, è persino meglio (“essenziale”, rectius) frantumarle.

Eppure anche queste sono parole – e la chiusa del testo lo indica chiaramente in quel “così ti parlo – non a te” – parole rivolte soprattutto all’io lirico, che infine si arrende con un semplice “e niente posso” di fronte agli “occhi limpidi” del suo interlocutore, creando un espressivo corto circuito: da un lato, la tensione razionale ad accettare le dinamiche di mutazione continua dell’esistenza, il continuo trasformarsi del quotidiano e delle persone care che entrano ed escono dalle nostre vite, con un invito a non mantenere le certezze sempre eguali in una forma di confortevole stato anticipatorio della morte; dall’altro, il cadere alla sorpresa della persona cara di fronte a noi, del suo sguardo, dello stringente senso della sua mancanza, al desiderio di trattenerla e di non lasciarla andare.

Nel mezzo l’imperfezione e il conflitto, tutto umano, che consente un sentire vivido e l’aspirazione ad una crescita continua – un dinamismo a volte doloroso ma, appunto, essenziale e vitale, da opporre con decisione a un mero sopravvivere, che rischia di tradursi in una comfort-zone asfittica – una sepoltura in vita.

 

Mario Famularo

 
 
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