L’urlo della mente e altre poesie inedite – Umberto Piersanti



 
 
L’urlo della mente e altre poesie inedite
Umberto Piersanti
Pagine 140
Prezzo 15 €
ISBN 978-88-94944-98-3


 
 
Versione online Sbac!
Prezzo 5 euro


 
 

La domanda di senso oltre il tempo differente.
A colloquio con Umberto Piersanti
intorno a L’urlo della mente
di Alberto Fraccacreta

L’urlo della mente è senz’altro l’opera più singolare di Umberto Piersanti. Edita originariamente da Vallecchi nel 1977, la raccolta è impregnata della kierkegaardiana ‘malattia dell’anima’, del «dubbio» – a partire dalla traumatica vicenda con un noto mistico poi dalla Chiesa assolutamente non riconosciuto – che assume i tratti di un vero e proprio interrogativo sul significato della vita, conferendo così al consueto dettato lirico-elegiaco piersantiano una patina, quasi una corteccia di esistenzialismo exprès. È evidente la rotta di ‘teologia negativa’ dei versi che si assestano su un iterato e martellante «ritorno» dell’«Assurdo», legato non soltanto ai sussulti psichici e mnestici, ma anche all’echeggiare di filosofie à la page particolarmente negli anni Settanta. Lo stacco operato dalla poesia di Piersanti – L’urlo della mente è il terzo libro e segue al fortunato e melodico Il tempo differente (Sciascia, 1974) – è però autentico nel suo guardare in viso al «male», nominandolo astrattamente e asciugando ogni richiamo a una realtà concreta e fattuale.

Sacra è ancora la nostalgia del «tempo differente», il goethiano attimo di splendore e bellezza, che rischia di essere soffocato dall’«ossessione tenace»: anche qui si avverte un fremito di sincera, inquieta apertura a una dimensione altra, che riesca finalmente a eludere le superstizioni e le metamorfosi tenebrose delle false devozioni.

 
 
 
 
All’origine
 
Colui che era presso la Croce
generò questo male
poi vennero parole stampate
del mio tempo
medioevo prossimo venturo
e fu l’assurdo
 
Il sudore era
sulla linea della fronte
la notte atroce
spesa nei soprassalti
l’amica mi trascinò
stupito
rotaie infuocate e case bianche
vera la diagnosi
spietata del medico dei pazzi
«volgarmente detta malattia del dubbio».
 
L’Assurdo era nel ritorno
e nelle cose, nei volti
non allontanò l’odore acuto
di cloroformio e d’altro
dai cessi della clinica serrata
né i gesti, le parole
i farmaci del primario, i medici
gli infermieri
non l’affetto sconvolto, impaurito
di mia madre
e gli altri
che vennero tra il verde
della mia stanza tragica
 
maggio erano papaveri e lupini
dalla mia finestra
era la vita irrimediabilmente altra
di una semplicità perfetta
ora solamente riconosciuta
e spaventosamente persa
 
L’amore percepito
in totale impotenza
in smisurata nostalgia
una ragazza del tempo differente
strappati i papaveri dei campi
venne e li depose nella stanza.
 
(luglio 1975)
 
 
 
 
La parola
 
Un giorno era la parola
per la lotta nei banchi
dell’assemblea e sulle piazze
per gli incontri lunghi con gli amici
così come nei treni, negli incontri
brevi dei caffè, delle strade,
dei ristoranti, era la parola
la tenerezza sotto i lampioni
tenace per i giochi splendidi del sesso
e dell’amore, sgombra
nei risvegli morbidi dopo il coito,
in essa era riposta la mia forza.
 
Ora il mio male viene
dalla parola, un mondo dove non sai
quale delle parole innesti
feroce il meccanismo e non è
forma ormai ma segno
il più pauroso della mia follia.
 
 
 
 
Negli anni sessanta
 
allora tu parlavi
sopra palchi
e banchi,
con stendardi e bandiere
dispiegate al vento
dei vent’anni,
perché avevi vent’anni
come nelle canzoni
antiche dell’ottocento,
del primo novecento,
le ascoltavi ragazzo,
salivano le voci
dall’osteria di Valbona
e tu rapito
ti fermavi all’ascolto
giù per la discesa,
ora era venuto
il tuo tempo,
i tuoi vent’anni
da bruciare nei sogni
e nelle lotte
 
certo, di quei stendardi
molti sono caduti
e tu già lo sapevi,
al fuoco della controversia
s’avvicendano opere e giorni,
la linea della storia
non è mai una retta
 
e poi le fughe,
fughe continue,
favolose, ostinate
tra chiese, castelli, monti,
via dalle aule affollate,
da quella rivoluzione
polverosa di fogli
al ciclostile e volantini
 
e poi i volti,
i volti delle donne
e le figure,
hai capelli corvini
grandi occhi scuri,
nella pieve a San Leo
il suono dell’organo
scende e c’invade,
hai occhi azzurri,
azzurri e franchi
occhi del Nord,
t’aggiri tra le querce
nel crudo sasso
della Verna
tra Tevero e Arno
radicate,
e mai ti stanchi
del chiaro verde
del cupo delle rocce
e dell’azzurro,
hai capelli rossi,
il seno forte,
le lunghe, luminose
gambe bagni
alla sorgente,
la limpida sorgente
del Metauro,
e altre,
altre ancora,
ho camminato con voi
tra navate e campi,
ci siamo seduti
sui muri,
sotto i ceppi,
molto vi debbo
per questo Eden secondo
dopo l’altro,
quello della sconfinata
infanzia sulle Cesane,
molto vi debbo,
molto vi sono grato
per una seconda età
immortale tra le valli
 
ma sui trent’anni,
in un giorno
non come un altro
della vita
venne la cupa
stanza nel buio
sprofondata
e quando alla luce
tu risali
s’è fatto scuro
il cielo e marmi
e cornicioni delle ville
di Tivoli tristi
e grigi
e plumbaghi e nasturzi
nelle tenere aiuole
reclinati e spenti,
ora un male feroce
preme alle tempie
e gela il sangue,
quegli anni luminosi
si sono chiusi,
da rovi e spini
stretti e separati,
altro tempo t’attende
e faticoso
 
(gennaio 2022)