Giornale di un poeta – Daniela Frignani

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Giornale di un poeta
Daniela Frignani
Pagine 92
Prezzo 14 euro
ISBN 978-88-94944-51-8


 
 
Versione online Sbac!
Prezzo 4 euro


 
 

“Tutto serve/ a uscire dal doloroso corpo della vita”. Avventurandosi nella lettura di Giornale di un poeta, seconda raccolta di Daniela Frignani, quel “tutto” tradisce presto la sua intima e nobile natura: è la Poesia, quasi una divinità a cui l’autrice rivolge, in vari suoi testi, l’eterna gratitudine per averle salvato la vita. La Poesia l’ha infatti armata di una forza visionaria che popola la sua mente e la innamora dell’esistenza, ma solo dal versante dell’assenza. Assenza che, in un gioco di allitterazioni, è l’essenza della vita liberata dalla sua corposità, della sua effimera durata, dalla possibilità di stringerla nella vana e sempre illusoria prigione dei sensi. Era la via aperta ai mistici medievali nella loro ascesi verso Dio, ma anche a una poetessa seicentesca come la messicana gongorista suor Juana Inez de La Cruz: Ausencia mas aguda presencia. Quella fuga dal possesso dell’oggetto amato che da Petrarca, arriva fino alla rivisitazione ottocentesca della Dickinson e ritorna nell’avventura metafisica della poesia di Salinas, in pieno Novecento. Ecco allora la città senza porte di 27 marzo: Oh sera di tinte rosa/ che sarai notte chiara/ attendi sospesa ch’io ti guardi/ dissolvere in cupo sfondo d’astri/ alla sua voce:/ ho lingua e orecchi nuovi/ e mille membra/ portami alla città sua/ senza porte…” dove si esplicita la necessità di garantirsi dall’incontro, nell’assoluta necessità di reinvenzione dell’amato nella propria anima, che sa dilatare all’infinito il desiderio. Lo spericolato esercizio dell’assenza si azzarda persino a visitare già l’oltretomba e ad immaginare di abitarlo, come in Fine di marzo, con un tocco quasi scherzoso, privo di aura funebre: “Dove andremo non serve memoria/ questa memoria terrena di fatiche/ dolcemente perdi la mano alla vita/… io che ti ero cara/ chissà quando fu”.

Roberto Pazzi

 
 
 
 
26 Ottobre
 
Chi ti può svelare se non io
giacché mi hai svelata
nel gioco che ci stringe
 
i tuoi eccessi, vedi
sono fame di equilibrio
i rifiuti insicurezze
l’eloquio prega attenzione
quel che concedi – non sai –
ti doni
 
combattiamo
ma abbiamo già vinto
entrambi giocando
tu hai fatto il lavoro migliore
lasciando l’opera incorrotta.
 
 
 
 
 
 
18 Novembre
 
è il mio peccato, dicono
amarti troppo
affogare nelle tue malìe
bruciare nel tuo fuoco
ogni frammento di pensiero.
 
Vanità e idolatria mi pare
a volte, amarti.
 
è la mia debolezza, dicono
il vino, pur benevolo
vivo nel mio sangue
a consumar malinconie
annientare ogni ragione.
 
T’inseguii – quanto è sbagliato
dissero – tra fiori d’arte e pioggia
oppressione barocca e un dio lontano
 
avrei fatto il mio programma
– era quel che chiedevo –
e ancora freddo e pioggia.
 
 
 
 
 
 
3 Dicembre
 
Finalmente anch’io veleno
intensa stilla, avida della tua vita
veloce nel tuo sangue
mista al tuo principio vitale
 
dividermi e riunirmi.
 
Finalmente in te
solo a corromperti
e per eterno gioco ripetere
nel mio cerchio tristi eclissi
 
opporsi e congiungersi.
 
Separare e ricomporre
vederti e non vederti
notti e giorni
raggiungerti e perderti
perderti sempre
la presenza e l’assenza
vaghe tracce di storia
 
infine l’essenza.
 
 
 
 
 
 
Fine di Marzo
 
Dove andremo non serve memoria
questa memoria terrena di fatiche
dolcemente perdi la mano alla vita
la tecnica s’inceppa
abbandoni i cari morti
e le vicende amiche
a barlumi mi rivedi
io che ti ero cara
chissà quando fu.