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La lirica del dolore
Poesia – Luigia Sorrentino nel suo Piazzale senza nome scava nella tragedie delle sofferenze quotidiane
15.11.2021
Con Piazzale senza nome Luigia Sorrentino compie un viaggio di ritorno all’origine che si concretizza attraverso il ricordo di una generazione ferita dalla dipendenza e dal convincimento di avere la forza di potersene liberare: Posso smettere quando voglio. In tale certezza risiede l’inganno della giovinezza che porta al naufragio.
“Ricordare una cosa” – scrive Cesare Pavese – “significa vederla – ora soltanto – per la prima volta”.
Nello slancio della memoria luoghi, ritratti, voci, schegge acuminate di storie sono, per la prima volta, sottratte al buio che le imprigionava – rischiarate dalla parola della poesia – e deposte dall’autrice come ex voto ai piedi dell’uomo morente su un confine estremo tra essere e non essere più.
Questo è il tributo che, al cospetto della morte, la vita esige per proseguire.
“avevano negli occhi una perla
la lentezza dei gesti
l’attimo innaturale della bocca
in villa comunale
tre fiale al giorno di morfina
il sonno dai lunghi capelli
tagliava i loro volti
indossavano la pelle di capra
nelle narici oltraggiate
spighe di grano”
La morte dei giovani prorompe sulla pagina con la cadenza rituale di un’antica liturgia.
Nello spazio della villa comunale avviene il sacrificio. L’offerta è il corpo.
La profanazione dell’essere umano è lenta, si propaga come gelo che dalle membra sale fino al cuore: gelo che ottunde, gelo che isola, gelo che cala in una hybris dionisiaca che ha il volto della capra. Il battito cardiaco accelerato, la contrazione del corpo nell’estasi momentanea, sono resi da una lingua martellante che scandisce il rito di iniziazione fino al punto di non ritorno, dove non vi è più dominio e la vita non ha più eredi.
“allora vedi la giovinezza
nella macchia scurissima che la inghiotte
scendi nelle crepe in cui non sei mai stato
nella ferita che voi non avete mai visto
la grande opera è sola”
Come macchia che reclama altra macchia, la dipendenza si propaga tra i giovani -“epidemia” – assumendo forme inaspettate, come l’obbedienza ad un amore sterile e violento.
La tematica della violenza sulle donne trova forma nei versi di rara bellezza dei due poemetti centrali – nell’eponimo Piazzale senza nome e in Nunzia – che sono, senza dubbio, fra i più importanti conseguimenti poetici della Sorrentino.
Lo sguardo dell’autrice si sofferma non tanto sulla perpetrazione dell’abuso, quanto sui segni che la violenza lascia sul corpo e nella memoria dei sopravvissuti: ragazzi che hanno conosciuto e sofferto la condizione dell’emarginazione e dell’abbandono, nei confronti dei quali l’autrice non abbandona sé stessa ad alcun pietismo, né indulgenza. A emergere è il male nella sua più cruda oggettività.
La donna è sola nel suo silenzio, la parola segue il ripetersi meccanico dei gesti nello spossessamento della propria umanità: “tu sei niente, nessuno.”
La solitudine, l’accondiscendenza della vittima nei confronti del proprio carnefice e la degradazione dell’essere umano sopraffatto da un amore malato, sono le stazioni di un calvario che l’autrice percorre con lucida e inesorabile fermezza. E poi, la superficialità e l’indifferenza della gente intorno alla vittima, sempre pronta a minimizzare o a dimenticare le responsabilità per il tanto sangue sparso: “…amore mio perché? Perché vuoi toccare il fondo?”. Ecco la sentenza, ecco la condanna di chi non ti crede, di chi non vuole e non può comprendere il tuo dolore.
Fabrizio Fantoni