Eucariota e ribilanciare per sottrazione su Fare Voci di dicembre

 

da Fare Voci

 

Il quotidiano per quello che è, e non per quello che lo si vorrebbe. La nostra società nei suoi aspetti più scomodi, lo scandalo di usare la poesia per raccontare tutto ciò.
È questa l’accensione continua che alimenta la nuova raccolta poetica di Giuseppe Nibali, “Eucariota”.
Il suo è il constatare di come lo sguardo sia sempre più importante nel nostro vivere di ogni giorno, immersi come siamo nella realtà in cui l’immagine è diventata il fulcro di ogni adesso.
E così il suo scrivere torna a portare la parola ad avere il suo ruolo fondamentale, nella ricerca di senso, nella documentazione, nella riflessione.
Ma è dalla combustione del presente che Nibali parte, da quel “posso consumarmi/ da dentro come avesse preso fuoco/ prima il pancreas poi il polmone destro/ e possa esplodendo illuminare/ l’alveare di case cresciuto alla stazione”, che parla in prima persona ma contiene un noi che non finisce di allargarsi, che mette in attenzione un luogo che per contagio diventerà molti altri luoghi.
Sì, una pima persona che ha voce maschile, femminile e animale, che rivela tutte le possibili anime di chi questo nostro tempo lo soffre, lo subisce, e se lo modifica, riesce a farlo solo il peggio, in primis per se stesso, per se stessa.
In “Eucariota” la poesia è al lavoro, in questo impegno con la verità, con il portare a galla ciò che di significativo è rimasto o può rimanere. Ma prima c’è da sottolineare il contemporaneo, il qui e ora, atto necessario per evitare ogni fuga, ogni facile compromesso.
Sì, questo noi che in un attimo diventa un loro, quando “i sospiri e gli affondi/ alle loro spalle pronunciando parole/ il nome dicono del serpente e universo villaggio casa/ nella lingua conosciuta”.
Il percorso di queste nuove poesie di Nibali è un addentrarsi in un roveto sempre più fitto di pensieri, azioni, accadimenti. Dove l’attraversamento è il riconoscere ciò che sta succedendo, la sua radice più profonda, la sua immagine più prossima.
Anche se è un cielo che si osserva, “Riesco anche a considerare/ le stelle come in rotta verso di noi” o la forma di un desiderio, “voleva scoparmi e io gliel’ho preso in bocca/ abbiamo litigato, gli ho detto che lo avrei/ detto a papà ho messo parte della furia in quella lite”, che è difficile da gestire, o semplicemente da vivere.
In queste pagine la scrittura di Nibali esce dai canoni consolidati, si mette alla prova, si adatta a ciò che ha di fronte, si trasforma nel dare al lettore la prima impronta dell’accaduto, la profondità della sua provenienza. La sua è una scrittura che si rinnova continuamente. E in tempi in cui invece ci si affida al già consolidato, al già sicuro, questo è grande pregio.
In un tempo che è uguale e diverso da ogni tempo/ quando la musica si ferma i tamburi tacciono e si aprono/ gli occhi della bestia. Indossa un copricapo d’ossa/ esce dalla tenda forte e bello come Cristo/ batte il pugno sopra il cuore una due volte/ per partecipare alla specie”; l’invito è primordiale, partecipare al manifestarsi della vita, qualunque essere tu sia. E in questa possibilità di espressione di sé, il libro trova ulteriore significato, nel nostro tempo che si sta trasformando sempre più velocemente.
E che vede in Chernobyl, e in ciò che è accaduto nel 1986, un punto di non ritorno: “È in noi che cresce il male/ […] Nel fondo troverete il buio, nel buio troverete/ gli òmeri, le tibie. Passeteci sopra, rompetele/ ascoltando il loro canto di coleottero”.
Il tempo in “Eucariota” è elemento portante, e questo fare poesia di Nibali ne è la pura percezione, nel suo desiderio ed impegno di riuscire a darne una forma possibile, alcune forme possibili. Per affrontarlo con maggiore chiarezza, per poterlo guardare in faccia, per riuscire a tratteggiarne un possibile ritratto: “questa madre che qui è mia madre/ non ha faccia e il padre che qui è mio padre è senza denti”.

Giovanni Fierro

 

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È un fluire che, di poesia in poesia, sviluppa e trasforma la narrazione da una costrizione di relazioni ad un respiro che si fa libero e più autonomo.
È “Ribilanciare per sottrazione”, il nuovo libro di Elisa Longo, luogo che contiene spazi dove l’attenzione nella scelta delle parole mette in evidenza il come questi testi siano nati da una necessità; da una motivazione che li tiene in vita, che li fa appartenere al lato propositivo della scrittura.
In questo suo scrivere le parole rivelano anche una nitidezza sonora che le fa suonare nel preciso del significato, nell’esatta radice del loro dire. Perché i testi di “Ribilanciare per sottrazione”, in questi tre brevi capitoli che lo compongono, sono una tessitura definita e misurata, determinata, ma che puoi guardarci attraverso, nella loro trasparenza che li rende preziosi, come se ogni volta avessero l’intuizione di far iniziare tutto quanto da capo, di nuovo.
Così è nella prima sezione, “Sbottonarmi parola per parola”, dove il dubbio è constatazione per nulla amichevole da cui partire, quello scrivere che “Mi smontavi come i Lego/ per rimontarmi secondo la tua legge.// Di un passerotto facevi un T-Rex”, il momento di quando la fiducia si trasforma in una dannazione; l’abbandonarsi ad un qualcosa che è parente stretto del sacrificarsi, per un qualcosa ancora da indovinare: “mi sento impotente mentre innalzi la mia croce/ e hai lo sguardo di chi stacca la coda a una lucertola”.
E in queste righe dove si fa fatica a respirare, dove tutto è allacciato troppo stretto, Elisa Longo si impegna nel trovare le parole – le ultime? – da pronunciare, per svelarsi, per chiamarsi al mondo.
Perché basta un niente per ritrovarsi “Intrappolata a spicchi” – e siamo alla seconda sezione – proprio in quegli ambienti dove si dovrebbe vivere una intimità rassicurante, serena e protetta; ma dove invece “Ci sono angoli di casa dove il sole insiste/ e mi faccio incubare”, e la verità si manifesta con nuovi interrogativi, “le ossessioni sono insetti/ accartocciati dentro i rospi”?
“Ribilanciare per sottrazione” è anche un percorso nel quale si anima un nuovo definire se stessi, uno sperimentarsi che trova il gesto dell’osare, il desiderio di trovare un equilibrio, un assetto possibilmente stabile, anche se è a perdere, anche se riconosce il bisogno del togliere, con il rischio di creare un’assenza, a cui inevitabilmente appartenere.
Ma la forza della scrittura di Elisa Longo è anche il suo fare poesia, che è sempre dentro un tempo che non è mai vuoto, che si fa forno, casa, se stessa, parola o corpo. E quando guarda fuori diventa natura; una natura che ci osserva e che forse è capace di giudicarci. Una voce fuori campo che entra nel perimetro dell’accadere, mentre l’autrice mette in atto il proprio mondo.
Il compito di questo sforzo è nel “Ribilanciare per sottrazione” – la terza sezione che dà titolo all’intero libro – quando “Scimmiotto il cielo con le parole/ quando il nero cade in picchiata”, ed è il misurarsi con il possibile per trovare un perché al proprio impossibile, il passo in avanti che fa da scarto con il passato, che porta ad imparare dalla natura che “il grano risorge mentre muore”, il rinascere di cui ogni giorno si ha bisogno.
Ed è un paesaggio dove “possediamo la memoria dell’acqua/ di cosa nutre quando brucia il sole”, il luogo da riconoscere per essere se stessi, per trovarsi ad occhi aperti finalmente … “coltivo la speranza del bocciolo/ la delicatezza dello stare accanto”.
Sì, “Il granturco mi cresce di fronte“.

 

Giovanni Fierro

 

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