Donatella Bisutti recensisce Alfabeto morse di Novembre


 
 

La nota editoriale al libro parla di un sentimento di “nostalgia preventiva” e di  una presenza che “già prefigura il proprio svanire”. E’ dal senso della perdita, vi si afferma,  che trae origine la poesia di Marina Corona e si accenna a una certa consonanza con Diego Valeri, il poeta delle Gaie tristezze, in parte assimilabile ai crepuscolari.
Il titolo stesso della raccolta diventa una chiave di lettura: novembre è una stagione dell’animo, in cui la parola non scompare ma si fa più sottile, come se fosse scandita da un alfabeto morse: poeta è colei che è capace di ascoltare questi segnali che si diffondono nello spazio.
La prima sezione si intitola Il burattinaio e l’ombra e introduce il lettore alle peculiari atmosfere di una raccolta in cui la luce e il suo negativo vengono tradotti in una serie di situazioni e immagini attinti dalla natura e dal quotidiano. La parola è inseparabile dallo sguardo dell’Autrice, che sa esplorare sé stessa e rendere universale l’esperienza della propria intimità, fragile e contraddittoria. Protagonista è una luce che abbaglia e acceca, come un’aurora boreale.
Nella seconda e centrale sezione eponima, l’impeto è come se cercasse il riposo in un ritmo dolcemente musicale e in una luce che assume i toni allo stesso tempo sfavillanti e oscuri di una

 

Lettura serale
 
Io il libro e la lampada
siamo l’uccello di fuoco della notte
calmo, che beve il fruscio delle pagine,
accoglierò il sonno come una distesa
colma di nere conchiglie sulla sabbia.

 

Il viaggio di Marina Corona si conclude nell’ultima sezione Il gong lunare, dove i luoghi emergono a comporre e a vivificare la memoria, prestandosi a farsi abitare dai ricordi.
È in questa atmosfera che la nostalgia dell’esistenza e degli affetti trascorsi trova nei versi non solo un riparo ma un riscatto. La voce poetica dell’Autrice si afferma come rimedio al silenzio e come balsamo del congedo dallo spazio e dal tempo: perché chi trascrive il proprio animo non si congeda mai del tutto e lascia agli altri il dono della propria traccia, in cui si intravede l’universale dell’esperienza umana di ognuno di noi.
L’uno e l’altro
 
Adesso tu hai preso la strada lontana
e hai lasciato impronte nere
incatramate al di là delle tue buie spalle,
l’altro, il giocoliere,
è caduto nell’orto di sterpi tra le spine
ha lasciato una nuvola grigia sopra di sé
a rammemorarlo con lacrimante pioggerella,
siete due belle estati sottoterra,
da voi spuntano libellule
vibranti trasparenti messaggere
dicono: “non piangere
ogni cosa è a un tempo sottoterra,
tu sei per ora fatta d’aria solo a metà”.  

 

Eppure questa è anche una poesia forte, drammatica, basta osservare l’intensità delle immagini trafitte di angoscia in una poesia come Da dentro: ed è il dentro che si rovescia fuori, con violenza, nell’accumularsi di metafore legate al suono e al colore: giallo e nero il colore,  e il suono un furioso ululato, e tutto precipita sotto il taglio affilato di una falce.
Una poesia dunque intensamente colma di dolore ma riscattata dalla bellezza delle immagini come ne La guardiana di cui citerò il bellissimo verso “vado così senz’ombra e senza / la piuma leggera dell’anima”. Un testo perfetto che trascolora dalla luce sfolgorante del sole all’indistinta oscurità della notte e in cui il bianco ha l’amaro della mandorla, la fragilità della camelia.

 

Donatella Bisutti