da Perigeion
A proposito di Corpi solubili (Samuele Editore – Pordenonelegge) Matteo Fantuzzi sottolinea di come l’autore Mario De Santis possa essere considerato a pieno titolo uno dei maggiori esponenti dei poeti nati negli anni ‘60, cioè di una generazione che non ha avuto “in ottima parte e per mille motivi le stesse possibilità di chi li ha anagraficamente preceduti ma anche di chi li ha poi seguiti”. Affrontando la lettura di Corpi solubili, raccolta che include poesie nate nell’arco di un lungo lasso di tempo, non si può che concordare con Fantuzzi, auspicandosi che un lavoro di così alta qualità abbia visibilità e risonanza più vaste possibili. La scrittura di Mario De Santis potrebbe essere definita una scrittura “a bassa voce”, nel senso che non cerca mai il colpo ad effetto o il trucco semplicistico; ricorre invece a un dettato piano, che in certi passaggi sfiora il prosastico, ma che racchiude una stratificazione lessicale e contenutistica davvero degne di nota. Colpisce innanzitutto come, dal radicamento geografico di natura impressionista, De Santis sia in grado di cambiare in pochi passi la prospettiva, dilatandola nel tempo (“il tempo delle assenze”) e nella profondità (“la sottile differenza tra il sogno della morte e un altro giorno in cui saresti stato qui”). È una poesia che non fugge dalla realtà, tutt’altro, piuttosto scava le voragini che si aprono dentro alla realtà stessa, e con la forza di parole pesate e soppesate ne attraversa il baratro che la disgregazione etica e politica degli ultimi decenni ha trasformato in smarrimento.
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