Affrontare la gioia da soli su Sololibri

 

 

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Ho letto e riletto, assaporandole, le poesie di Francesco Tomada in Affrontare la gioia soli (Samuele editore, 2021, pp. 76), incluse nella collana Gialla Oro, una delle più prestigiose della casa editrice, nata per raccogliere testi di poeti con una consolidata esperienza alle spalle e un consenso siglato da critici e traduttori, oltre che da lettori attenti e “aficionados”, innamorati della poesia. Gialla e Gialla Oro sono state le collane di Pordenonelegge e Lietocolle, ma l’anno scorso Lietocolle ha chiuso la collaborazione ed è subentrato Samuele, delle quali è editore, Pordenonelegge è curatore. La redazione delle collane è composta da A. Canzian, Villalta, Cescon, Pivanti.

Ho dovuto rileggere i testi come si ripetono le esperienze per coglierne la vera portata e lezione. Ho imparato l’ascolto del dolore e ho scoperto nel suo freddo ineluttabile il calore di scintille di gioia, sia che si tratti del dolore nato dall’incuria e volontà umana, sia di quello che la natura riserva a ciascuno come fatalità e destino. Le scintille, quantitativamente sparse, son poche, ma quanto brillano e quanto scaldano! Compensano della crudeltà e della fatica, lasciano il segno di una “pietas” che non viene meno, il cui segno distintivo è lo stringersi le mani, offrirle come partecipazione empatica, umanità vincente sulle tribolazioni e gli errori.

“Ma tu / tu stringimi la mano / se vogliamo credere che ci sia qualcuno a casa / di quell’ubriaco che lo svesta e lo perdoni.”

Tomada è un menestrello che racconta fatti, incisivi spaccati del trascorrere quotidiano, specie negli aspetti estremi, come una malattia incurabile, la morte per overdose, l’alcolismo, i migranti e la loro incoercibile vitalità anche di fronte agli orrori, “l’amore sbilenco”, la casa di riposo abitata da disfacimento, solitudine e silenzio.

“Una donna sta dormendo sulla sedia in refettorio / ha il viso appoggiato da un lato / la bocca spalancata in un grido senza suono / dietro a lei un pappagallo in gabbia / una volta cantava racconta l’infermiera / mentre le asciuga un filo di bava.”

Racconta la miniera abbandonata e la fierezza di chi ci ha speso e sudato coraggiosamente gli anni migliori, il sorriso triste di un bambino (l’autore stesso), l’amore che tutto sa e perdona della madre.

“La tua solitudine era quella di una donna / a cui il figlio non telefona nemmeno / dicevi lo so che hai molte cose a cui pensare.”

E tanto ancora. Lo fa con stile discorsivo, antiretorico e lirico. In versi lunghi alla maniera di Walt Whitman e di Cesare Pavese dipana esistenze “minori” preziose, soltanto in apparenza perdenti (e chi non perde di fronte al logorio degli anni?), perché quella bellezza e quella gioia “da soli” sono salvate. Mette a confronto le generazioni, sottolinea come i padri e i figli si somiglino inevitabilmente, nell’appartenenza e nella vicinanza del vissuto familiare.

Che cosa è mai questa gioia indistruttibile, goduta nell’intimo, ricordando l’altalena costruita per i figli, metafora di un salire e scendere infinito e potente? Goduta “da soli”, perché se non la scopri in te nessuno potrà regalartela, neppure l’angelo custode, che egli definisce “inconsistente”. Non per tutti l’angelo è tale. Ricordo gli angeli di Wenders nel film Il cielo sopra Berlino (1987). Il messaggero “anghelos” è il proprio sé, la perfezione d’amore da raggiungere.

La gioia si identifica con la consapevolezza e la coscienza e la dignità di crescere, misurando le proprie forze. In un computo matematico relativo ai contenuti della sua psiche, l’autore in fine aggiunge “cinque per cento di gioia che è il sorriso con cui mi illumini tu / due per cento di una serenità congenita e incurabile”.
Sembra poco, ma si tratta di un “poco” denso, concentrato, bastevole a giustificare la verità e validità del percorso.

Tomada non giudica ma indica, il gesto poetico significante ha in sé il valore del significato. Si esce dalla lettura rafforzati, con una riserva di saggezza in più, capaci di accettazione e sguardo che va a fondo. Questo è il dire del poeta, uno dei suoi compiti essenziali: rivelare chi siamo, possibilmente nella leggerezza dell’essere. Leggerezza insostenibile, dice Kundera nel suo libro più noto (L’insostenibile leggerezza dell’essere). Possibile invece qui, in dosi “omeopatiche” e terapeutiche. Non è un accontentarsi tanto per sopravvivere, è attraversare i giorni in pienezza:

“Non ho più scuse / non cerco scuse / vediamo se sono cresciuto abbastanza / per affrontare la gioia da solo.”

 

Graziella Atzori

 

 

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