Affrontare la gioia da soli su Minima&Moralia

 

Da Minima&Moralia

 

«La miniera è chiusa da vent’anni ma qui tutto è ancora miniera.
Le case sono state costruite per i lavoratori, il museo si è preso lo
stabilimento dove si purificava il piombo, il pendio della montagna
è un accumulo di pietre scavate da là sotto.
Quando nevica d’inverno i fiocchi sono grossi e lenti, come quando
capovolgi quelle sfere trasparenti che contengono un paesaggio.

Rovescia ancora quella sfera.
Che la neve si raccolga nella concavità del cielo.
Che la terra discenda nel vuoto delle gallerie da dove è venuta.
Che tutti gli uomini risalgono salvi. Torna più indietro, prima di
silicosi e pleuriti. Fino alla festa di Santa Barbara, quando vestivano
i loro completi con ventinove bottoni dorati e lo sguardo fiero di
chi tutti i giorni scende nel mondo e lo spacca davvero.»

Un altro tipo di panorama, un paesaggio che non è più e che eppure è ancora. Nemmeno un terzo, ma un quarto paesaggio. Un luogo che è stato qualcosa, e quel qualcosa rimarrà per sempre anche se il luogo – la miniera – non c’è più. Le cose non se ne vanno mai davvero, perché sono attraversate dalle storie delle donne e degli uomini che le hanno toccate, abitate. Stavolta il panorama non ci guarda (come in Carboni), ma ci tira per la giacca, ci spalanca gli occhi. Francesco Tomada lo sa, lo ha sempre saputo che la bellezza sta in tutte le cose e che tutte quanto rimangono, là dove un bambino ha giocato, dove un uomo ha faticato una vita, un tremito, un pianto, un vecchio bagliore, una porzione di terra che s’apre, un odore di ruggine, ci riporta indietro, e perciò a noi.

Questa bellissima poesia sta in Affrontare la gioia da soli (Pordenonelegge – Samuele editore, 2021) e ci mostra un modo ancora diverso di vibrare, di stare nel luogo, mentre il luogo conserva tutto ciò che è stato. «Che tutti gli uomini risalgano salvi», scrive Tomada, e che siano tutti, i minatori che risalivano vent’anni prima, e prima ancora, e i loro padri, e tutti quelli che hanno scavato la terra con le mani, che hanno spaccato pietre, che hanno tirato fuori donne e uomini dalle macerie di un terremoto, che hanno affondato le unghie nelle lenzuola che avvolgevano il corpo di un genitore malato. Tomada sa che tutto il mondo sta nel giardino di casa e che si è soli, sa anche che non bisogna avere paura, non si deve smarrire la capacità di commuoversi, si deve provare a non sorprendersi quando torna un momento di gioia, non bisogna vergognarsene, non bisogna scappare. Leggo Tomada da molti anni, lo ammiro, quando parla dice poche parole, quelle che servono, fa così anche quando scrive poesie, non eccede mai, eppure ti porta con sé, ti passa il suo mondo che da quell’istante ti sembra il tuo, come quando scrive: «Adesso sono sulla punta della vita / da qui si vede lontanissimo / in ogni direzione». E sulla punta della vita, qualunque sia la nostra età oggi che leggiamo, stiamo pure noi tentando di trovare la giusta direzione in cui guardare, saltando il panorama, salendo su un’altalena, scendendo in una miniera.

 

Gianni Montieri

 

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