Vincenzo Ciervo su Farràgine

  • Tempo di lettura:4 minuti di lettura


 
 
Da Laboratori Poesia
 
 

Farràgine, Marco Amore (Samuele Editore 2019, collana Scilla, prefazione di Giovanna Frene)

Liberare la poesia dalla schiavitù del Senso, è questo lo scopo di Farràgine. L’autore, Marco Amore, risale all’ossatura della poesia: la parola, espressione di emozioni, di colori, di immagini, di suggestioni, ma soprattutto specchio del poeta. Un animo, quello dell’autore di Farràgine, lontano da falsi moralismi, da risposte pretenziose, da filosofie artificiose, attento a “non confondere l’inchiostro con la virtù” come direbbe Baudelaire; un animo che ha come unica compagna la bellezza del verso.

È per questo che è all’inizio del libro, quando il foglio bianco intimidisce la maturazione delle parole e minaccia la fioritura del verso, che si scorge il momento più malinconico dell’autore “la mia anima quale triste, mistica parola interpreta?“. La risposta è in fondo a un bicchiere di Gin “un sorso ed è fatta“; la parola è maturata, il verso fiorito, “s’inauguri il viaggio“.

Un viaggio verso mete già visitate da illustri predecessori – l’Amore, la politica, la moralità, i vizi e le ipocrisie dell’uomo – ma che adesso hanno conosciuto un turista d’eccezione che non vi cerca risposte o verità di alcun tipo “anche la verità mi ha mentito“, “smettetela di sfogare le vostre frustrazioni sulla metafisica: la verità è un cannocchiale che ha bisogno di una mentalità aperta a ogni evenienza“.

Alla fine del viaggio – senza risposte in tasca perché “l’epoca in cui esigevi risposte da te stesso è trascorsa senza che ti ponessi neanche una domanda” – l’autore sembra ritornare in quella solitudine, o forse vuoto, scorto all’inizio. Probabilmente il Senso risiede proprio in questo vuoto e la Verità nella rinuncia di dimostrare di conoscere certezze che in realtà non si hanno. Per questo il poeta sbeffeggia, a tratti, coloro che paventano, o hanno paventato, simili conoscenze. Marco Amore vuole rimanere se stesso, scrivere una poesia che lo rappresenti, una poesia pura, autentica, che non salga in cattedra perché “non esiste alcuna lezione da imparare“. Dimostra al lettore di non aver bisogno di dimostrare nulla, se non la potenza delle parole e la bellezza dei versi.

Parole e versi capaci di squarciare quel foglio bianco tanto temuto all’inizio e che ora è vinto per sempre, macchiato dall’inchiostro resistente della poesia. Una poesia che percorre i luoghi remoti della mitologia e della storia – dall’oblio del fiume Lete, alla città della Lidia, Colofone, fino all’antica (quanto attualmente popolata) regione della Grecia, la Tessaglia – e nella quale il lettore si ritrova catapultato in dimensione e contesti in continua mutazione, a tratti antitetici: dall’atmosfera rarefatta dei sogni “svegliato da un sonno ipnagogico / spalanco le palpebre / di fronte alla minaccia del sonno“, “un quarto di sigaretta nel posacenere vuoto / quanto la sensazione / di chi sogna / di cadere nel vuoto mentre dorme“, alla desta lucidità delle riflessioni “la politica è scissione“, “la moralità è fondamentale e l’immoralità profetica“; dal silenzio della notte, al fragore del giorno “la notte brindava (cin cin) col giorno“. Questo e molto altro è Farràgine.

Vincenzo Ciervo

 
 
Continua su Laboratori Poesia