Venti su The Book Advisor


 
 
Da The Book Advisor
 
 
Mai mi sarei immaginato quanto i versi di “Venti”, poema di 48 stanze di Nguyen Chi Trung, uno dei più importanti poeti del Vietnam, potessero essere sfidanti, prima di aprire quelle sue pagine. E mai mi sarei potuto immaginare quanto obbligato sarei stato a ripercorrerli, quei versi, e quanto difficile il viaggio avrebbe potuto essere, prima di leggerli.

“Venti” di Nguyen Chi Trung lascia al lettore, primariamente, domande

«Nell’autunno del 1992, in una notte di temporale e circondato dal ruggito del vento, il poeta si rinchiude in un brivido e si domanda come il suono della morte viva nel vento», scrive nella Prefazione Zingonia Zingone con l’intento di tratteggiare la genesi di “Venti”. Questa «notte di temporale» e questo «ruggito del vento» consentono così a Nguyen di dare vita a queste 48 stanze, in cui l’intimo si affaccia sull’universo e viceversa, spazzate da venti di ogni tipo che, generando un movimento oscillante tra opposti, e «ponendoci / in una fluttuante situazione», lasciano al loro passaggio domande che interrogano l’esistente sulla sua propria esistenza.

Che senso ha la vita scriverà appunto in un verso. Questa domanda, mascherata, come talvolta capita nella poesia di Nguyen, da affermazione, ma da leggersi istintivamente così come la struttura sintattica ci suggerisce, è forse la migliore sintesi di “Venti” e della poetica in esso contenuta.

I venti che spirano all’interno di questo poema mettono in risalto i patimenti dell’esistente, sempre soggetto alla trasformazione

Ma ciò che il passaggio di questi venti ci lascia non sono solo domande – e nella poesia di Nguyen, una poesia che è stata definita a ragione, a mio avviso, “esistenzialista”, ve ne sono tantissime –, ma anche la consapevolezza di quanto dolore, sofferenza e afflizione assoggettino la realtà di chi vive, come traspare per esempio da alcuni versi della stanza 12:

Venti del deserto che nella nostra vita adesso
vi avvicinate, per un breve istante,
e ripartite ancora, l’affollata
e arida terra abbandonando.
Ciò che rimane ancora qui e là
è un resto di polvere e sabbia,
che turbinava nei relitti
dei nostri naufragi,
sostenuti da impalpabile dolore.

E quindi dubbi, tormenti, solitudine – «…come un senzatetto / che si trascina stanco / per le strade devastate / e perde la direzione, / e va dalla fine di una strada / all’inizio di un’altra, trovando sempre / se stesso al margine» – accompagnano la trasformazione, dinamica dell’esistente – «Noi tutti / siamo un serbatoio di transizione», scriverà infatti nei versi finali della stanza 35.

Matteo Celeste

 
 
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