Su “Venti” – Maria Pia Arpioni

venti

L’inconfondibile segno del vietnamita Nguyen Chi Trung, autore del poemetto Venti, tradotto nel 2014 in italiano da Anna Lombardo ed edito dalla Samuele Editore con prefazione di Zingonia Zingone, accoglie il lettore fin dalla copertina: Man with Stone – questo il titolo del disegno – è infatti opera dello stesso Chi Trung. Esso risale al 1979, tredici anni prima della pubblicazione in lingua originale (tedesco), di questi versi, a testimonianza della longevità di una tematica, e di un tormento, nella vita e nella scrittura del vietnamita, dagli anni Sessanta residente in Germania.
L’immagine è un paratesto quanto mai pregnante: rimanda al mito di Sisifo, naturalmente, a Camus e dunque all’esistenzialismo europeo anche letterariamente più alto e autentico, a un fondamentale pessimismo che è storico e cosmico al tempo stesso («dalle origini la terra porta il suo dolore» [1 – il numero tra parentesi quadre d’ora in poi indicherà il numero, all’interno del poemetto, del componimento che immediatamente lo segue o precede]) cui alludono il titolo del poemetto e l’assenza di contesto nel disegno. Fin dalla soglia dell’opera, c’è insomma l’idea di un peso, una forza, a cui l’uomo deve opporre resistenza per non essere travolto: questa forza è la vita stessa, avvertita da Chi Trung in tutta la sua potenza, anche distruttiva, in una notte tempestosa, quella che fa da sfondo contingente e al contempo misterioso di questa litania laica (l’accostamento è in qualche modo dello stesso poeta: «la preghiera che abbiamo scelto al posto della poesia» [20]). Ciascuno dei quarantotto componimenti numerati è infatti la ripetizione, sapientemente variata, di una invocazione ossessiva: quasi che il senso continuasse a sfuggire alla parola poetica. La produzione di Chi Trung – che attualmente vive e lavora a Stoccarda come scrittore (in vietnamita e tedesco) e traduttore, dopo aver esercitato la professione di ingegnere fino al 1996 – conta ormai sette volumi (usciti a Saigon nel 2013): ne fanno parte poemetti con titoli altrettanto impalpabili e atmosferici, quali Polvere, Nuvole, Pioggia, Luce solare.
Il “miracolo” della traduzione poetica (tramite la mediazione dell’inglese) offre tutta la meraviglia e il dramma di questi versi [23]:
 
Venti che sembrate provenire da luoghi
che per noi, esuli auto-espulsi,
dovrebbero essere così vicini,
vicini come il cuore e il cervello
che portiamo e coltiviamo tanto a lungo
quanto il nostro dolore che cresce.
Cosa intendiamo, quando in letteratura
diciamo dell’arrivo,
e la stessa vita non sa di nessuno,
ma solamente è?
Dichiariamo che la nostra storia
è attualmente completa,
ma non ha raggiunto ancora una fine.

 

Come si vede, è profondo l’intreccio fra questioni storiche e ultime, tra condizione personale e universale («noi», «nostro»). Allo stesso modo, il tema del dolore dell’esilio non può essere disgiunto dalla riflessione metaletteraria, carica di domande, di continui ripensamenti sul senso di un percorso senza «fine». Caratteristica di questi testi, che oscillano fa i 9 e i 21 versi, è infatti una costante struttura interrogativa (reale o retorica, implicita o segnalata dall’interpunzione) o negativa, nichilista [6]:
 
Venti dei seguaci, che ci guidate
e accompagnate nella ricerca senza stelle.
Non sappiamo dove, non conosciamo nulla,
ipotizziamo solo probabili
spazi di solitudine
il cui regno nelle buche di terra
si spande come ciottoli.
Del vuoto. Infinita quantità di cose.
Incommensurabili. L’anima non dovrebbe
scomparire?

 

Il discorso su spirito e materia, e sul corpo in particolare, è un altro dei temi di questo poemetto. Altrove, su di un ponte che congiunge mirabilmente la tradizione europea con quella asiatica, risonanze della poesia di Hölderlin si fondono con rimandi alla filosofia orientale, alle presenze costanti della memoria e della morte [18]:
 
Venti, che la vita trasformate
– sogno divenuto materia,
piacere divenuto dolore –
con lo spasimo del dolce istante
nell’attacco della morte.
Senza veramente prendere congedo
dal deserto mare le cui onde indispensabili
sono per noi e diffondono se stesse.
Oh giorno, che t’apri brillante e luminoso!
Presente, che sei adesso lì,
poco afferrabile rechi in te soltanto
dissolvenza. Sei tutto lì? Dove.

 

Non caos, dunque, ma cosmo, eppure internamente travagliato, sempre sul punto di scomparire in qualche sua parte, di divenire il proprio contrario, riavvolgendosi e dispiegandosi in altro. Negli istanti in cui si incide la consapevolezza della perenne trasformazione che ci riguarda – il soffio eterno dei venti – si posa la poesia, «memoria» della «tragedia» [8]:
 
Oh memoria, come raffiche di venti
vaghi oltre vicinanze e lontananze
e lasci la tragedia indietro.
Solitamente qui nella parola.

 

L’idea della poesia come “resto” di una disperante consunzione attraversa il fluire cosmico di questi versi (in particolare nel componimento [20]), sorprendentemente coerenti (è pienamente avvertibile l’inclinazione speculativa dell’autore), e tuttavia, sempre e nuovamente, scombinati e ricombinati da un soffio superiore [30]:
 
E quale poeta è capace
di presentare tutte le sofferenze sopportate
e i dolori senza voce su di un foglio
di carta fatto di brandelli
tutti sparsi e che proprio adesso
si ricompone
simile a un labirinto,
mentre va per la sua strada.

 

Nella parola poetica si agitano gli istanti in cui si può avvertire ciò che rimane [36]:
 
Venti, che lasciate una ninnananna
risuonare dolcemente come se confortare
volesse tutte le sofferenze
che qui continuamente avvengono.
A volte c’è il tempo per una ninnananna
– dobbiamo riconoscere quel momento,
solo quello –, e tutte le volte è troppo tardi.

[…]
Il tempo al suo scadere,
questi sono sempre i tempi delle ceneri
giunti dal vortice a riposare.

 

La dolcezza di questi istanti residuali, proprio dentro l’occhio del ciclone, investe di responsabilità la poesia, con accenti nuovamente hölderiani e heideggeriani («Perché i poeti nel tempo della miseria?»). Il progresso personale e storico ha lentamente condotto all’oblio dell’anima, ma la scossa dei venti della poesia la possono ridestare («venti, siete dell’etica il superfluo» [44]). È proprio questo, in fondo, il senso profondo dell’assunzione tematica dell’esistenza come esilio, di cui l’allontanamento dalla terra natia è solo un risvolto. Nella coincidenza fra poesia e vita, l’autore ritrova il significato singolare della propria individualità ([37] e [45]):
 
La miseria da cui volevamo allontanarci,
ora è necessario rimetterla
nel nostro vocabolario,
per nominarla nella dimenticanza
che abbiamo dentro.

[…]
ciò che possiedi,
gettalo ai venti,
lascia che sia effimero e sia dimenticato.
L’unicità della vita sta soltanto
nella parola che scrivi.

 
 
 
 
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