Su “Venti” – Luca Baldoni

venti

 

Ho conosciuto Nguyen Chi Trung nel 2013 a Venezia nel corso del Festival di poesia “La palabra en el mundo”. Ascoltai la sua lettura in vietnamita di alcune strofe dal poemetto Venti, allora un work in progress di cui fu proiettata una traduzione inglese approntata per l’occasione. Tralasciando il senso di straniante meraviglia che si prova – o almeno io provo – quando sento recitare versi in una lingua che più altra non potrebbe essere, capii subito che si trattava di un evento poetico raro. Era l’assaggio di un poema che si presagiva di considerevole ricchezza, complessità e fascino, e che mi spinse dopo la lettura ad avvicinarmi a Chi Trung per comunicargli il mio entusiasmo. Il poeta ha vissuto la sua vita adulta in Germania, e io grazie al cielo parlo tedesco. Così, si offrì di farmi avere tutto Winde, la versione tedesca dell’originale da lui stesso approntata. Fu una lettura entusiasmante che confermò le prime impressioni, e che mi rende particolarmente felice ora di parlare di un libro notevole, la cui traduzione italiana avrebbe meritato di risvegliare ben altro interesse.

Il fascino di ascoltare una lettura in vietnamita, lingua le cui strutture basilari – fonetiche, grammaticali, sintattiche – in nulla ricordano ciò con cui siamo familiari, e la cui tradizione letteraria ci è oltretutto ignota, si trasforma in un baratro da attraversare quando quella stessa poesia va tradotta e commentata. Queste barriere culturali e linguistiche, e le limitazioni che ne conseguono alla nostra lettura, sono state ben evidenziate da Zingonia Zingone nella sua introduzione e dalla traduttrice Anna Lombardi nella nota finale al volume. Giova ricapitolarne alcune, anche solo per avere un’idea dell’abisso che ci separa dall’originale. Si parte dalle particolarità della lingua vietnamita, che è una lingua-musica in cui ogni parola è composta da una sola sillaba, e che dispone di sei suoni vocalici che possono essere pronunciati ognuno con cinque diversi accenti che modificano il significato: detto in breve, la sillaba “ba” può esprimere sei parole diverse a seconda dell’intonazione sulla A. All’altro estremo abbiamo le forme tradizionali della poesia vietnamita a cui Chi Trung resta fedele, e anche qui modalità e strutture di rara complessità e ricerca musicale ci sorprendono. Né possiamo scordarci che la traduzione italiana è stata effettuata a partire da una versione inglese.

Per tutte queste ragioni, mi trovo a dover eliminare una serie di percorsi critici usuali – dalla messa in luce delle ascendenze poetiche e del loro ruolo, a una serrata analisi formale, a un inquadramento di tipo filosofico e ideologico – per battere l’unico che le circostanze mi permettono. Quello di un approccio alla fenomenologia del testo e della raccolta, dalla quale spero di poter risalire a qualche dato più generale che possa essere di ausilio alla lettura.

Venti è una composizione unitaria di 48 strofe numerate che possono anche leggersi ognuna come uno spazio conchiuso, in cui si agitano le domande che si ripercuotono su tutta la sequenza. Ogni componimento, o strofa, ha un numero di versi variabile (almeno nella traduzione italiana), ma struttura ricorrente; un’allocuzione ai venti (la parola-chiave è sempre in apertura, e in molti casi si amplifica in anafora) viene modulata in una serie compressa di immagini che trascolorano senza soluzione di continuità in un interrogarsi smarrito e angosciato, con domande dirette che chiudono ogni componimento allo stesso modo in cui la parola venti lo apre. Ogni testo ripete questa struttura basilare che fa emergere con chiarezza due poli: i venti da cui la raccolta prende il nome, e il soggetto che si interroga nel fluire di immagini, sussulti e riflessioni che l’invocazione iniziale fa scaturire.

A partire da questi dati, evidenti anche a una prima e cursoria lettura, dovremo cercare di rispondere a due domande: cosa sono e simbolizzano esattamente i venti per Chi Trung, e in che modo si pone il soggetto interrogante nei confronti della congerie di immagini sollevate dalla prima parte di ogni poesia? Sono quesiti forse banali, ma alle quali i testi offrono risposte tutt’altro che semplici.

Partiamo dai venti stessi. Il vento è un’immagine culturale di certo non ingenua; nella nostra tradizione è il soffio vivificante, lo spirito di Dio che aleggia sulle acque nella Genesi, il pneuma dei filosofi greci da cui i padri della chiesa partirono per individuare le caratteristiche della terza persona della trinità, e poi oltre, all’altezza del romanticismo, un alito più violento e tempestoso, estrema metamorfosi di ciò che vivifica, ma anche scompiglia e trascina la vita verso la dissoluzione (Shelley). Nel Novecento, il vento è stato anche un’effusione maligna e annichilente, l’abbattersi della distruzione causata dal fungo atomico. Ignoro le valenze che possono esservi associate nella tradizione orientale, ma i venti di cui ci stiamo occupando di sicuro hanno poco a che fare col concetto di un alito vitale. Il pneuma discende sull’uomo come una benedizione, un potenziamento del sé. In Chi Trung i venti si abbattono, sono una forza immensa sì, ma svuotata e riarsa, sbuffi secchi che annichiliscono la realtà. Per esemplificare potremmo inanellare gli incipit di quasi ogni componimento, mi limito a una breve rassegna che dà un’idea del registro figurativo (e semantico) prevalente:

 
1.
Venti del cielo, che il cielo separate,
del cielo che stanotte sarà strappato
non a causa d’un essere umano
vuoto ancora di passato.
 
2.
Venti dell’oscurità che ulula nel buio
 
3
Venti dello spazio, un sogno
che vita non può diventare
 
11
Venti, che svuotate e spazzate via ogni cosa
che a noi s’aggrappa…
 
15
Venti che l’amore
fate scomparire…
 
21
Venti che davvero spazzate via ogni cosa,
 
28
Venti, come potete togliere vigore
al linguaggio fino a renderlo
del tutto vacuo?
 
47
Venti, siete solo l’esigenza del dubbio?
 

Non ignoro l’emergere di figurazioni di segno opposto, pneumatico nel senso più tradizionale, e rassicurante, del termine (32: “Venti che alle gocce di pioggia date forma visibile”, oppure 43: “Venti, siete un largo respiro che/ tiene in vita ciò che vive”), tuttavia la sfera della distruzione e del dissolvimento è nettamente prevalente. Mi pare si possa dire che i venti di Chi Trung evocano, nell’accavallarsi delle loro onde e dei quesiti incessanti che generano, una sorta di rapina cosmica, un tempo senza tempo e requie che trascina anche lo smarrimento e dal dolore verso il niente. Le folate di un’energia impersonale, cosmica, immanente, nel loro cammino possono anche, distrattamente e senza scopo, dare attimi di vita, ma comunque all’interno di un cammino di distruzione incessante.

Di fronte a questo quadro, chi è il soggetto che si interroga? Quali caratteristiche ha? Prima di affrontare la questione, sottolineo che le domande e i punti interrogativi che così fittamente emergono nel libro, sarebbero meglio definite come imprecazioni, o preghiere. “Domanda” o “interrogazione” sono termini troppo razionali, troppo logicamente mirati. I quesiti di natura esistenziale o etica di Chi Trung mi hanno piuttosto ricordato l’incredula esclamazione di Cristo: “Padre, padre, perché mi hai abbandonato?” La forza distruttrice, assolutamente impassibile, che abbiamo delineato, si pone come causa di questa reazione.

Anche se alla fine la riflessione e il conflitto sembrano perdersi in un urlo, in un lamento, in un’eco portata via come tutto il resto, molto del timbro di questa poesia si deve al modo in cui il soggetto si pone nel corso di questo serrato confronto notturno che da così vicino ricorda quello biblico di Job. Diciamo subito che il soggetto Chi Trung, al di là di qualunque immagine vulgata che potrebbe manifestarsi nella mente di chi si avvicina a un poeta orientale, è una compresenza di mente e corpo. Assente, mi pare, è qualunque tendenza legata alla visione del buddhismo, a un percorso di allontanamento dal fenomenologico che si risolva in una coscienza oltre la razionalità. Chi Trung è ancorato a un impasto di mente e corpo, e in particolare mi ha sorpreso la ricorrenza della parola “intelletto”:

 
5
il suo peso ancora l’anima opprime,
e lo possiamo percepire con l’intelletto
e con il cuore che va giù, giù?
 
9
La nostra mente possiede un debito
da cui non può essere liberata.
Lasciamo cuore e intelletto…
 

Può darsi che ciò sia collegabile alla formazione scientifico-tecnica dell’autore. Ugualmente possibile che l’attendersi altre modalità di apprensione della realtà in un autore orientale sia un’idea ingenua, che riflette solamente la mia ignoranza di una tradizione culturale complessa e lontana. Il dato comunque permane, e dona a questa poesia una notevole densità di risonanze. Di fronte ai venti il soggetto trema delle ferite più profonde dell’esistenza, si fa penetrare nella carne dalle sue domande sino a che queste diventano lacrime e gemiti. E però la ferita, altrettanto letale, è contro la razionalità; contro l’intelletto inteso non come hubris razionalista, ma come il continuo lavoro umano di capire, fronteggiare, legare ciò che è stato reciso e cade nell’annientamento. Un intelletto forse inteso principalmente come pazienza, dedizione, come strumento umano per dirla con Sereni. A una seconda e a una terza lettura, ho iniziato a percepire meglio, tra una poesia e l’altra, tra i versi piuttosto che in essi, la presenza di questa tragedia anche dell’intelletto, che mi pare qualcosa di strettamente legato alle poetiche moderniste di stampo occidentale (e mi chiedo ora, per inciso, quali siano le valenze esatte del termine vietnamita corrispondente).

Segnalo per concludere, all’interno di questo dialogo del soggetto col mondo e con se stesso, il tema del ruolo della poesia, il rimanere caparbiamente attaccato alla pagina e alla parola pur nello sconvolgimento incessante portato dai venti. Sarò sincero nell’affermare che trovo questa la tonalità meno stimolante della silloge; personalmente non credo che la poesia rappresenti alcuna ancora di salvezza, o compensazione verso l’esistere, e trovo l’agitare questi nessi, qualunque sia il poeta che li propone, un fattore di convenzione letteraria. Mentre il processo continuo da cui questi isolati atti di fede emergono, cattura e dilania; sia per il maestoso e sorprendente concatenarsi delle immagini, saggiamente contenuto, e direi compresso, dalle regolarità sintattico-strutturali (per non parlare di quelle ritmiche e foniche perdute in traduzione), che per il fitto riproporsi di quesiti, invocazioni, suppliche, che investono come onde tutto il libro, spingendoci da un componimento all’altro come in una serie di singulti.

Qui c’è la grandezza di Chi Trung. La sua voce per noi risuona lontana a causa dei vari ostacoli che ha dovuto superare per raggiungerci, ma soprattutto per la bellezza aspra e spiazzante, una presenza che pulsa e che al contempo ci appare come come cancellata dalla rapina dei venti e dal loro incessante lavorio.

 
 
 
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