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La gravità della soglia

Poesia

Roberto Cescon
Samuele Editore

Recensione di Gian Piero Stefanoni
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Pubblicato il 09/12/2014 12.00.00

Libro secondo questo di Cescon (a cui segue proprio quest’anno il nuovo “La direzione delle cose” edito da Ladolfi) ma soprattutto testo che appare fin dal titolo denso di chiarezza e di coraggio. Intendiamoci, chiarezza di strumenti e di materia perché di apertamente chiaro in ogni vera interrogazione poetica non c’è, nulla può esserci, se non al contrario un magma, seppur vegliato e cosciente, un mistero di voci e di forme che ci attraversano chiamandoci a una accolta, curata e dosata redistribuzione nella misura del mondo e del cuore. E qui veniamo al coraggio, perché al proposito questo giovane autore friulano, ben conscio del ruolo di crocevia, quasi di albero elettrico in sorte al poeta, si pone nel rigurgito esatto del dire tra spazi e movimenti, tra uomini e cose entro una terra che perfino nella memoria pare non più tenere. O trattenere, per meglio dire, in una immobilità di cieli e speranze che si affacciano senza direzione, di spiriti fermi nemmeno più spauriti ma tesi in una angoscia che priva di rivelazioni prima che di relazioni. Ed è allora in questo margine, nell’umanità patita e preservata, che si gioca la scrittura e l’inciso vitale di Cescon; perché, e il titolo adesso ci viene in aiuto a esemplificazione di suddetta poetica, “gravità” e “soglia” in poesia non possono essere considerate due paroline qualsiasi. Entrambe, infatti, sono legate, legandola, a una realtà e a un divenire sempre fondanti e imprimenti:la soglia a sottolineare il quid di relazione tra incontro e sua negazione, di luogo e cura di possibilità e nascite ma anche di scontro per rimanere appena in superficie nella base dialettica delle sue accezioni; e gravità- in questo caso in accompagnamento- a richiamare con forza il senso di responsabilità da cui non è possibile distogliersi non solo rispetto a situazioni e dinamiche che sovente si impongono con scelte e passaggi obbligati ma soprattutto rispetto a un esserci e a un provarsi tout court che fa sempre di ognuno di noi soglia di qualcosa o qualcuno. Gravità, allora, che giustappunto si rivela anche nella duplice valenza di imponenza, di peso e insieme di levità, sì, di stacco quasi fisico dal suolo a mostrare le ambivalenze sottili dei nostri strati che altro non attendono se non il loro scioglimento. E così nel volare basso dell’attraversamento umile, Cescon si affida alla fedeltà di una parola che ha nella riduzione, nella ricucitura delle distanze- a riempire “la carne che ogni cosa vive”- la sua virtù primaria saldamente nutrita di immagini da cui il nostro si lascia guidare per fermare le cicatrici proprio nella presa e nello scoperchiamento del peso (concetti questi del valore rivelatorio delle immagini e dell’accorciamento delle distanze ad opera della parola poetica su cui Octavio Paz ne “L’arco e la lira” ha dedicato sapienti pagine che raccomandiamo con forza). Giacché come nel testo da cui prende il titolo il libro attesta (nell’omonima prima sezione), lo scarto è tra il non perdersi e il compiersi con coraggio. Di muoversi oltre le asfissie di una terra e di un tempo ingrigito a cui però non è possibile nemmeno al cuore, nel suo volere, sfuggire. La sostanza di questo libello, suddiviso in cinque sezioni, ci pare così in buona parte nella reciproca incomprensione, di tradimento di e con la terra, di qualcosa di incompiuto e di separato con e tra gli uomini e di cui solo alcune piccole figure, come le rondini o gli usignoli cercano ragione o qualcosa da dire- lo stesso Cescon il più delle volte aggredito, smarrito tra volti e voci di vivi e di morti, di padri a reclamare ancora spazi di affettività e memoria alle quali cerca di prestare comunque una presa, o una corda di tenerezza, di piccola misericordia nel tempo della nudità e della magrezza. Tutto ciò, in questo convenendo con quanto detto da Cucchi nell’introduzione soprattutto in riferimento all’asciuttezza di tono, entro una lingua che per salti, borbottii, grandi o accennate ritrosie esprime fuori bene lo spaesamento di senso che non è, non può essere di una sola area oppure circoscritto a una dinamica privata ma, per passività, di un’ intera epoca e di cui Cescon tenta il racconto con lo strumento di un dire che troverà poi, infine, nell’amore la grazia di un ordine che sotteso all’uomo lo individua e lo sorregge ( ed in parte, in qualche modo almeno nella visione in precedenza già rivelatogli nel sereno e pacificato incontro di volti, passi e cose che tra la linea di un argine e l’ordine delle case si rispondono consentendo poi agli spazi di parlarsi e di parlargli in apertura di orti e di cortili-“Un affacciarsi di volti che tornano”). Così nel fondo dell’amore, in questo percorso in cui a scontarsi è anche, come lui stesso confessa, una paralisi generazionale per mancanza di adeguata educazione ad esserci, più sentita si fa- e insistita nel dettato- la consapevolezza del valore della parola come “modo per salvarsi”, come misura di una pace necessaria a fronte di una vita che improvvisamente può strapparti e lasciarti “come davanti a un plotone” e a cui lui nello sforzo chiama alla benigna e faticosa contrapposizione tutta raccolta nella bella immagine dell’impegno a restare ritti come “un girasole in inverno” (“Ho molti padri ancora nello stomaco”). Da qui, dunque, nell’equilibrio leggero come tra acqua su cui “allungare piedi come radici” e una fune “su uno specchio da non toccare” (se stessi, il mondo di cui aver custodia e cura come prezioso cristallo?) il respiro di giorni in cui lo sperare appare in tutta la sua concretezza in un amore, in una vita che sorprendentemente piuttosto ci rovescia senza chiedere ma che ci fa compiere come magia e dove nella difficoltà crescente risale un rimando quasi di fede verso un cielo dove anche ci fosse il niente “resteranno le impronte per chi le vedrà”. E noi vedremo allora, in conclusione, prendendo a prestito il titolo del nuovo libro, “La direzione delle cose” appunto, qual è, quale sarà la direzione di questa poetica, di questa scrittura che paga, a nostro dire, solo a tratti il vuoto di qualche verso in sovrappiù ma che pure possiamo dire presente e incisivo nell’estrarre il vivere come corpo che si svuota del peso e prende carne: “Esistere con le parole che vedo”. Sì.

 

 

 

da Larecherche.it