su In Camera Caritatis – 1 giugno, Spilimbergo

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Da Arte Magazine
e Eroica Fenice
 
 

Una delle caratteristiche predominanti degli ultimi decenni è la velocità. Se all’inizio del ‘900 i futuristi l’avevano identificata come necessaria inserendola nelle loro istanze, pochi decenni dopo l’artista si trova a dover affrontare le conseguenze del suo eccesso date dalle nuove tecnologie e modalità di comunicazione. Concetti come “obsolescenza programmata”, “non luogo” (Augé 1992), “modernità liquida” (Bauman 2000) con la successiva definizione di “amore liquido” (sempre Bauman 2003) e “tecnoliquidità” (Cantelmi 2013), sono ormai di dominio pubblico come evoluzioni (o involuzioni) antropologiche già accadute.

L’avvento dei social media e in particolare di Facebook (2004) ha significativamente contribuito a produrre, come effetto della maggiore libertà di comunicazione e interconnessione (private di un paracadute culturale che ne avrebbe permesso la sostenibilità), una semplificazione e un’accelerazione delle relazioni umane che hanno iniziato a soffrire un’obsolescenza programmata (facilitata dalla virtualità poi somatizzata nel piano della realtà). L’uomo è diventato un prodotto e ha iniziato a subirne gli esiti. Ciò che era un modello di marketing (si pensi ad esempio a Gmail, servizio gratuito dove ciò che viene venduto siamo noi in quanto clienti targettizzati) è diventato un modello comportamentale, di relazione. L’altro è un mio prodotto e lo uso in accordo con l’esigenza dell’attuale modello di marketing di upgrade, di cambio continuo. E io sono un prodotto dell’altro all’interno però di una contraddizione: l’accetto come tale ma io non accetto d’essere tale. Ma cos’è una relazione umana se non una sintesi del proprio stare al mondo? Una consapevolezza?

Se il non luogo, nella definizione di Augé, è uno spazio non identitario, privo di storia, di relazione, ed è il rapporto che si instaura con esso, possiamo ben dire che l’uomo/prodotto è a tutti gli effetti diventato il non luogo di sé. In questo l’identità si è trasformata in un punto d’arrivo ipoteticamente raggiungibile solo attraverso eccessi emozionali autoalimentanti quali l’aggressività, l’iperstima di se stessi, la chiusura in una propria cerchia (emblematico l’algoritmo di Facebook che propone solo quanto inerente i propri interessi). Di conseguenza si è arrivati a un’iper-frammentazione della realtà e dell’essere umano che, per poter essere compresa e comprendersi, ha dovuto osservare solo i “pezzi più evidenti” isolandoli a scapito della totalità, del contesto, e di una durevolezza della realtà medesima. Si ricordi ad esempio il caso della fotografia scattata da Nilüfer Demir al bambino morto sulla spiaggia nel 2015 (Alan Kurdi) e allo tsunami emozionale derivatone. Il bambino è diventato un’immagine lontana dalla sua stessa natura di bambino, quindi è stato dimenticato. Anche quel bambino, o meglio l’immagine di quel bambino, era semplicemente un prodotto da utilizzare per un determinato e limitato periodo di tempo.

Ma la realtà come è diventata oggi la possiamo paragonare a un cubo di Rubik: quando la osserviamo vediamo solo tanti colori sconnessi, una frammentazione. L’approccio col cubo è fonte di frustrazione e disorientamento perché necessitiamo di una soluzione veloce, immediata, che il cubo respinge. Ma allo stesso tempo quel disordine ha in sé la risposta – è stimolo e desiderio di armonizzare, ordinare i colori. La soluzione è possibile in virtù della destrutturazione delle facce e in virtù della relazione che si instaura (e qui torna prepotentemente Augé) con il cubo. Il paradosso del cubo di Rubik è la coesistenza di ordine e disordine in virtù di un’intenzione. E tale intenzione è un’identità, ed è la possibilità dell’artista stesso… che non è mai una possibilità esclusivamente personale ma rappresenta un assunto, più o meno consapevole, della società in cui nasce.

In questa direzione e in queste premesse si inserisce l’artista statunitense Rachel Slade. Figlia del pittore Duncan Slade, nasce a Putnam, nel Connecticut (USA), e vive in Italia dal 2002. Le sue mostre più recenti sono “Citizen Ship”(Villa Corrier-Dolfin, Porcia Pn, 2014), “Crambe Tataria” (Villa Cattaneo, San Quirino Pn, 2015), “Ephemeral” (Teatro Russolo, Portogruaro Ve, 2015), “La casa apocrifa” (Cantine Collalto, Susegana Tv, 2016), “Devota come un ramo” (Sala Liberamente, Maniago Pn, 2018), “In Camera Caritatis” (Chiesetta di Santa Cecilia, Spilimbergo Pn, 2019). Artista dedita anche alla poesia ha curato la presentazione di alcuni autori della Samuele Editore al New York City Poetry Festival del 2014 e diverse copertine di libri. Ha partecipato a eventi letterari quali “Residenze Estive” (Trieste), “I poeti scalzi” (Venezia), “Poeti alla Baschiera” (Pordenone), “Callisto” (Venezia), “Una Scontrosa Grazia” (Trieste), “Le notti del mito” (Roma). Ha pubblicato la plaquette di poesie e disegni “Apocryphal House / La casa apocrifa” (Samuele Editore 2016) e nel 2018 ha vinto il Premio Ossi di Seppia per la poesia.

La ricerca artistica della Slade si svolge e matura negli anni attraverso dei focus su tematiche ben precise: l’appartenenza (in “Citizen Ship”), il paesaggio (in “Crambe Tataria”, con particolare riferimento ai magredi friulani), la transitorietà (in “Ephemeral”), la casa (in “La casa apocrifa”), il sacro (in “Devota come un ramo”) fino agli epigoni di “In Camera Caritatis” (ancora in essere, la mostra sarà inaugurata il 1 giugno) che esplorano il concetto della creazione come contrazione (di matrice ebraica).

Alessandro Canzian

 
 
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