su Cossa vustu che te diga – di Guido Cupani – da Perìgeion

sandron

 

Giacomo Sandron, Cossa vustu che te diga

 

di Guido Cupani

Sono passati più di due anni da quando ho sentito Giacomo Sandron leggere Lato destro. Ricordo la folgorazione. Sembrava di ascoltare una macchina per leggere: la voce dell’autore si muoveva avanti e indietro come un pistone, spingendo e rilasciando le frasi, inceppandosi e riprendendo. Ridevamo tutti. Era esattamente il riso di Bergson: una reazione di fronte alla ripetizione innaturale di un gesto, alla vita che diventa meccanismo.

La poesia in questione, che compare anche in questo nuovissimo Cossa vustu che te diga (Samuele Editore, Pordenone, 2014) col sottotitolo Te vavanti come prima fin al fis-cio dea sirena, è effettivamente la descrizione di un meccanismo: una serie di operazioni alla catena di montaggio per produrre un pezzo di cui non si capisce bene se funzioni e a cosa serva. Notiamo due cose: primo, Sandron non spiega, mostra. Anziché dirci che la fabbrica è alienante e che la vita ridotta a processo non è vita, preferisce farci provare direttamente l’esperienza, anche solo per due minuti. Secondo, non usa la propria voce ma quella di un altro (il caporeparto, in questo caso). Non so fino a che punto si tratti di una trascrizione esatta, ma di sicuro è credibile. Il poeta, ossia l’ascoltatore, colui che dovrà mettere in pratica le istruzioni, pare quasi scomparire.

Sembra poco, ma in questi due punti c’è tutta una poetica. Ho l’impressione che Sandron sia talmente disilluso sulla necessità di “fare cose” da rinunciare alla pòiesis in favore dell’inventio, intese entrambe in senso etimologico. Un’arte che voglia davvero criticare il modello produttivo dell’età della crisi non può diventare a sua volta un prodotto, una proiezione dell’ego, destinata presto o tardi alla spazzatura. Meglio cercare fra quel che c’è già. Raccogliere cocci e farli combaciare. Riciclare ciò che il ciclo del consumo ha scartato. Sandron non è un artefice, è un trovatore.

 
 
 

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