su “Cossa vustu che te diga” – Antonio Lillo

sandron

Come già evidenziato da Fabio Franzin nell’attenta postfazione all’opera, con Cossa vustu che te diga Giacomo Sandron dà alle stampe una summa della propria arte, maturata negli anni in maniera discreta ma senza passare inosservata. Le poesie, scritte per la maggior parte nel dialetto di Portogruaro, sono mediamente lunghe, spesso veri e proprio racconti in versi, dall’andamento svagato, con forti richiami all’opera di Raffaello Baldini.
Quello che emerge dallo sguardo “stupito” con cui l’autore guarda la piccola provincia veneta protagonista delle sue storie è appunto lo scollamento irrimediabile fra due realtà: quella passata, povera ma dignitosa, persino nel suo pratico attaccamento al cibo, e di cui ancora si avvertono le tracce nella fortissima presenza dei ricordi, nei tempi dilatati, nelle giornate perse al bar, alle prese coi propri tormenti emotivi: «Che me vien da ciamarte/ sol che co’ son imbriago/ vol dir che te amo?/ Ma no un fiatin, vojo dir,/ ben s-gionfo de vin. (Che mi viene da chiamarti / solo quando sono ubriaco / vuol dire che ti amo?/ Ma non poco, voglio dire, / ben gonfio di vino)»; e quella presente, fatta tutta di lavoro in fabbrica, ambiente descritto nei minimi particolari di lavoro, ma con un taglio più surreale che alienante, talvolta ironico, mai eroico, chapliniano.
In questo continuo oscillare fra passato che si fa presente e presente che rifiuta testardamente di farsi futuro, è racchiusa dunque l’intima realtà del libro, la sua profonda inquietudine, a cui la poesia, per una volta, pare offrire sollievo: «te ga presente star sperso tal caìgo/ in simitero quando tuto xe compagno// la tomba de me nono la se disfa// Someia che i xe drio russarte i ossi// Me vien voja de corer anca a mi/ trovarla ‘na roba, ‘na robuta quaunque/ tignirla strenta, no molarla/ no molarla/ no molarla. (hai presente perdersi in mezzo alla nebbia / in cimitero quando tutto si assomiglia/ / la tomba di mio nonno si disfa.// Sembra che stiano lì a grattarti le ossa.// Mi viene voglia di correre anche a me/ trovare qualcosa, una cosa qualunque/ stringerla forte, non mollarla/ non mollarla/ non mollarla)».

Antonio Lillo

 
 
 
 
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