su Beneficato – di Guido Cupani

gifted

Words as a gift • Il beneficio delle parole

Pubblico, per cortesia dell’autore, la prefazione a Gifted • Beneficato, la nuova raccolta di Patrick Williamson di cui ho curato la traduzione e che uscirà a breve per Samuele Editore.

 

 

Poets believe that they have an infinite universe in their hands; what they actually use is a small subset of the words between the two covers of a dictionary. All future books already exist, scattered across the corpus of literature: the hard work is to find them, and to sort out their words, throwing away what is not needed. One apparent exception to this axiom is the possibility of word coinage; nevertheless, it’s just a matter of time before a coined word is incorporated in the dictionary as well.

When I first heard about found poetry, I must admit I regarded it as a pointless artifice – a poet chooses a book and decides to create a new work by literally picking words out from the book. The rule is simple: you can only use words from the original text. Puzzle lovers may be tempted to introduce a further constraint: instead of picking words out randomly, always choose the tenth word of each line, or one word out of thirty; pass the text through the sieve of Eratosthenes; whatever boredom and numerology may suggest. Can we call a text that is so mechanically engineered a poem? With great humility, practitioners refer to them as found poems. That’s deliberately ironic, though: if you just think of it, all poems are found, not only those composed in this way. Verses are not created ex nihilo; the artist’s skill, the so-called inspiration are not regarded as mechanical just because we are unaware of their obscure laws. Being forced to pick words from our personal mind inventory is not a lesser constraint than to unearth them in a book written by somebody else.

 

 

I poeti credono di avere a disposizione l’infinito universo; quel che usano è in realtà solo un sottoinsieme delle parole comprese fra le due copertine di un dizionario. Non c’è libro futuro che non esista già, sparpagliato, nel corpus di qualsiasi letteratura: la fatica è semplicemente ritrovarlo, setacciarne le parole e ordinarle gettando via tutto quel che non serve. L’invenzione di neologismi è solo un’apparente violazione di questo assioma, che dura finché i nuovi termini non vengono inglobati a loro volta nel dizionario.

Quando ho sentito parlare per la prima volta di “found poems”, lo ammetto, ho pensato che si trattasse di un gioco sterile. Il poeta prende un libro e decide di trarne una nuova opera letteralmente pescando dal libro le parole che preferisce. La regola è semplice: si possono usare solo le parole del testo di partenza. Gli amanti dell’enigmistica possono darsi un vincolo ulteriore: anziché pescare parole a caso, scelgano sempre la decima parola di ogni rigo, o una parola ogni trenta, o passino il testo attraverso il crivello di Eratostene; qualsiasi cosa suggerisca loro il tedio o la numerologia. Si può chiamare poesia un testo composto in modo così meccanico? Umilmente, chi coltiva quest’arte parla appunto di poesia trovata. Ma la provocazione è evidente: come queste, qualsiasi altra poesia può dirsi trovata, se solo ci si pensa un po’. Non c’è verso che sia creato ex nihilo. L’estro, la cosiddetta ispirazione ci appaiono meno meccaniche solo perché non riusciamo a decifrarne le leggi occulte. Attingere dal bagaglio di parole che ci portiamo in testa non è meno vincolante che attingere da un libro scritto da mente altrui.

 

 

 

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