Recensione a “La prigione dolce, viaggio in monastero” – Guido Cupani

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È naturale trattare certi libri come se fossero persone. Mia moglie fa visita a Orgoglio e Pregiudizio almeno una volta all’anno, prima di Natale, per portarle gli auguri, come a una cara amica di famiglia conosciuta dall’infanzia. Io ho incontrato Le particelle elementari una sola volta, e l’ho subito inquadrato: un tipo segaligno, complessato, imprevedibile, corroso dal cinismo; ci siamo salutati cordialmente e cordialmente evitati da allora. Il comandamento evangelico vorrebbe che amassimo tutti i libri come amiamo noi stessi, ma anche Dio sa che questo è impossibile (e infatti non c’è comandamento che non contenga un’impossibilità). Un rapporto profondo e sincero tra un essere umano e un libro è cosa rara e preziosa, come l’amicizia. Va cercata e coltivata. Richiede cortesia e comprensione, atteggiamenti che né gli autori di prefazioni (adulatori di professione) né i recensori (anaffettivi per partito preso) sono solitamente capaci di far propri.

La prigione dolce: viaggio in monastero di Arkadij Scestlivzev è un libro di cui mi piacerebbe essere amico. L’ho letto due volte e abbiamo cominciato a conoscerci. La simpatia, credo, è reciproca. Entrambi abbiamo riconosciuto nell’altro alcuni tratti comuni, e questo ha reso fin da subito molto cordiale la conversazione. Il libro ci tiene a mettere in chiaro fin da subito (con una certa civetteria, diciamolo) di essere un libro ingenuo, ma di un’ingenuità che non svela proprio tutto di sé. Non è ben chiaro, ad esempio, di che tipo di libro si tratti. I termini romanzo novella non gli si addicono: vi si narra una storia, questo sì, ma senza pretesa di organicità, e i personaggi non sono completi, continuano ben oltre il bordo della pagina, come tutti i personaggi reali. Neanche diario è una buona definizione, vincolata com’è a un riferimento temporale che la narrazione invece non osserva. Quaderno è forse il termine più adatto. Evoca la libertà di una redazione sempre provvisoria, priva di costrizioni formali, e la semplicità dei temi di scuola, un genere così arduo da scoraggiare anche i più grandi autori (un’eccezione è Robert Walser, coi suoi irraggiungibili Temi di Fritz Kocher).

La storia è semplice. Un’attrice di teatro (alter ego della stessa autrice, che si coniuga alla terza persona) ha l’occasione di trascorrere tre mesi ospite di un convento di monache ortodosse vicino a Mosca, accompagnata da un collega. Le circostanze che preludono l’esperienza non sono chiarite: non contano tanto le cause terrene, quanto la motivazione spirituale che spinge la protagonista ad acconsentire alla proposta con entusiasmo, direi quasi con incoscienza. Fin da giovane, dichiara, si è sentita ortodossa, ma non ha mai saputo concretizzare la propria fede in una pratica di vita. Ogni sforzo di coerenza con sé stessa e con Dio si è tradotto in un fallimento: «da sola non sono capace di fare nulla». Ecco dunque un’opportunità di affidarsi, di lasciarsi fare, per una volta. «Mi sono accorta da un po’ di tempo che quando uno crede a se stesso tutto va storto. Meglio credere a qualcun altro. E fare come dice lui.»

Che cosa conviene portare con sé in un monastero? «Speranza, timore», ma soprattutto «un libro che parli d’altro». Bisogna contemplare la possibilità di scoprirsi non adatti a un viaggio che muove, insolitamente, verso l’interno anziché verso l’esterno. Perfino alcuni preti si mostrano scettici: «“non ci resterete due settimane, scapperete via a gambe levate…”». Ma nel caso della nostra protagonista, volontà e necessità paiono sincronizzarsi. Lo scopriamo attraverso i suoi sogni, il cui scenario usuale è una prigione, ma una prigione inconsapevole, sorvegliata da carcerieri stranamente compassionevoli. La salvezza non è nella fuga. «Dio è libero, gli uomini meglio di no»: è questa la verità eversiva a cui è gradualmente condotta. «Bisognerebbe fermarsi. Solo allora colui che non c’è e che tuttavia è il principe del movimento perderebbe il suo potere.» Come nella fiaba delle scarpette rosse di Andersen, il movimento è diabolico, coazione che allontana dal bene. La quiete è l’obiettivo. Per questo anche la narrazione rallenta, fino a sfumare nella lirica, fra preghiera e sogno.

Il doppio movimento che ho descritto, verso l’interno e verso la quiete, è accompagnato da alcune figure. Fra tutte quella di padre Ignatij, il padre spirituale del convento, che vive in una casetta «perché il sacerdote non può dormire all’interno delle mura di un monastero femminile». Padre Ignatij, che «somiglia a un cavaliere errante… [p]erché vede un altro mondo», è il personaggio più seducente della storia, ballonzolante predicatore il cui discorso è sempre sul punto di infrangersi nel silenzio. Egli parla agli ospiti come fossero bambini e al contempo non disdegna di bere birra con loro e discutere di teatro, perché «bisogna farsi tutto con tutti». Al momento opportuno, insegna loro come si prega: «quando dite peccatore in preghiera pensate: neputiovoi… inconcludentebuono a nullainetto», perché Dio «non vuole parlare con [chi] fa finta di amare ma con [chi] dice “perdona, io amare proprio non so”».

E rieccoci al punto di partenza. Come recensore dovrei mascherare i miei sentimenti, parlare dell’opera da un punto di vista tecnico, citarne le debolezze (la ridondanza di certi passaggi, uno sviluppo non sempre chiaro delle parti dialogiche), ma mi sentirei a disagio a farlo. Sarebbe come come deridere un amico che si confidi con noi perché alle volte balbetta mentre racconta. Questo libro offre fiducia e merita fiducia. A metà del racconto ci presenta la figura di Madre Nadia, un’aiutante nella cucina del convento, «donna non bella. Anzi, enormemente obesa. Inoltre le manca un occhio», eppure capace di sorridere «non fuori, ma dentro». «Tutti la rimproverano… Il cibo non va, le conserve di frutta e verdura sono fatte male, non ci sono abbastanza piatti e bicchieri sulla tavola, la mensa non è stata pulita a dovere… Lei a volte va in camera sua e piange ma non ha mai una parola di rimprovero per nessuno. Le sue mani sono grandi e rozze ma accarezzano serenamente la mia testa.» Madre Nadia è il modello di un atteggiamento che andrebbe tenuto con tutte le persone e con tutti i libri. L’unica domanda che conta è se sono stato contento di conoscere questo libro. La risposta è sì. Potrebbe dirsi, in modo condiscendente, un libro semplice. Ma come nel caso di Madre Nadia, «Io ho sempre diffidato di queste parole. Ora non so più, il mio snobismo filosofico si trova in grave imbarazzo. Quando vieni amat[o] così senza alcun motivo apparente mancano le parole e non resta più niente da dire».


Guido Cupani






La prigione dolce: viaggio in monastero 

di Arkadij Scestlivzev

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