Melita Richter su “Da capo al fine”

 

Nonostante il titolo alluda al tempo lineare e a un percorso di continuità, il testo poetico Da capo al fine (Samuele Editore, 2016, prefazione di Silvia Secco) di Maria Milena Priviero si srotola con un ritmo sincopato privo di attese coerenze. L’idea che trasmette è l’assenza di un fine definitorio e la sua permutazione in un infinito lato del finire, nell’eterna apertura al ricalcolo della cifra vitale.

Aprendo, quindi, alle permanenti possibilità dell’abitare il mondo, l’Autrice si presenta con Se, il primo titolo della silloge. Un Se che in brevi versi conferma l’impossibile dire dell’amore. Lo fa come un’opzione latente, senza parole / perché l’amore è una voce / che in silenzio il silenzio ascolta. Pensiero quanto discreto, tanto il segno distintivo dell’autoritratto della poeta.

Suggerendo il moto moderato, agile, Priviero guida il lettore tra varietà di prospettive di fertili Landscape poetici per proporre ben presto, e in alternanza, una serie di Inscape minimalisti che non sono mai soltanto la visione che si ha dal di dentro d’un luogo, ma anche dentro di sé. La sua interiorità è corporale ed è segnata da diverse stagioni del femminile.

La troveremo bambina seduta sugli scalini, straniata come una gatta tra le scatole di cartone, eredità di un trasloco impresso nella memoria. La vedremo donna in quel lungo abito nero / che tanto ti piaceva / con quel / profondo taglio sulla schiena / che ad ogni piccolo movimento si apriva. Più in là si presenterà matura, consapevole dell’inganno e dell’imminente inverno.

Conosceremo le sue case e quelle degli altri, i condomini con le porte dagli usci chiusi, ma ci sarà sempre un oltre. E ci saranno ritorni.

La circolarità del tempo, non sarà scandita tanto dalle quattro stagioni, o quelle della vita, ma dai ritorni: in fondo è sempre ritorno.

Il lettore impaziente potrebbe mostrarsi guardingo e intimorito dalla ripetitività, e perfino avvertire noia, visto che il giorno che lei contempla si annuncia lo stesso d’ogni risveglio, e in qualunque stagione, e Giorno / dopo giorno / dopo giorno / dopo. Ma questo cadenzare prevedibile e in qualche modo rassicurante, cambia appena uno spazio di luce si fa la strada. Di questi spazi di luce è ricca l’espressione lirica di Maria Milena Priviero. Di luce lei illumina la pacata quotidianità di cui sono protagonisti e/o complici gli umani e altri esseri viventi, oggetti, animali, piante. Basteranno poche e decise pennellate a dare il contorno a un quadro poetico nuovo, ricco, e a ravvivare il ricordo con i particolari in evidenza, dove ogni contorno è nitido e ogni cosa era se stessa.

È un’osservatrice acuta Maria Milena Priviero, acuta e concreta. Ha le mani nella terra, semina, non si crogiola nella fenomenologia dello spirito, non scandaglia le piaghe del mondo, né parla dell’assoluto. Dalla sua semina tra essenze diverse / parole tronche / pensieri liberi / e nascerà un microcosmo di relazioni personali, coltiverà la sorgente degli sentimenti e della saggezza, la semplice saggezza di vita che consiste nello smettere di pensarla / lasciarla tutta penetrare / e respirarla.

Il suo respiro poetico non è affrettato, non urla assenze e solitudini, caso mai le rimescola e ne esce rafforzata, ma neppure nasconde il rimbalzo / di echi di pieni e di vuoti e le ferite esposte di cui non si prevede cura.

Semmai un giorno si saldasse
avresti una parte di te più dura.
Bisognerebbe tagliarlo lo sai,
perché ramifichi ancora
ma il taglio non è la cura.

(dalla poesia Come ramo lacerato dal vento)

È un rivolgersi universale, quello di Priviero, è un parlare del corpo privato e allo stesso tempo sociale. Lei non si lascia travolgere dal dolore e dal rimpianto, al contrario, sfodera le armi per cantare la vita e, da abile circense dell’anima, a sorpresa, lascia fluire l’ironia con cui inverte il senso e il ruolo delle relazioni, come quello tra poesia e di chi la genera. Se ora ti butto giù / tu, mi getti via? Quesito franco. E, coraggiosamente annuncia oggi mi va di essere banale mentre osserva il miracolo della vita e dei suoi mutamenti: una foglia gialla d’autunno, o una piantina di rosa da sola spuntata ai piedi di una giovane betulla.

Quando la tonalità di parole e di sentimenti si placa e si tinge di nostalgie, e la vita pare celata / sospesa in un’est d’attesa, quando il piacere s’imbeve d’amaro, lei trattiene il tempo, si nutre nell’attesa, stacca e riprende il ritmo sciolto che l’aiuta a scivolare in un’altra dimensione dell’esistenza, preferibilmente quella di crescita, dove è sempre lecito il volteggiare giocoso. Questa alternanza di vitalità che risuona nei versi di Priviero, rimarrà uno degli elementi distintivi della sua poetica. Basterebbe citare la bella poesia bilingue Mon Oncle, un distillato di serenità, un quadretto d’epoca.

Che cosa chiede, infine, l’autrice, alla sua poesia e a chi la legge?

La relazione. La frequentazione. Le assonanze terse come quel gorgoglioso solfeggiare alla fine della poesia Di Giovedì.

Mi verrete a trovare di Giovedì
– se potrete – o in un giorno stabilito
negli altri non aspetterò nessuno
e scenderò in giardino a rastrellare
le foglie, una parola di passaggio
e quando piove accenderò il camino.
tu, nel tuo laboratorio, io con
la gatta accanto sul divano e un libro
in mano saremo l’uno e l’altro paghi.
E spolverando il piano ritroverò
quel suono:
mì-re-do, mì-re-do, mì-mi
mì-re-do, mì-re-do, sì-si, fà-mi-re

 
 

Melita Richter