Mario Famularo su La densità del vuoto

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Da Laboratori Poesia
 
 

In questi testi di Matteo Piergigli si affronta in modo abbastanza diretto la frattura  relazionale che porta allo smarrimento di senso e prospettiva, ma ancor più a uno stato di logorante isolamento relazionale e comunicativo.

Si tratta di una frattura introiettata, vissuta nell’interiorità dell’io poetico, in netto contrasto con l’altro-da-sé e il mondo esterno, con cui si tenta con difficoltà una connessione e si testimonia una difficoltà di contatto e comunicazione.

Il vuoto di Piergigli è reificato e opprime l’io narrante, che lo vive come una minaccia e un limite, avvertendolo quasi come una entità materiale e negativa.

Questa la premessa; già nel primo testo assistiamo alla contrapposizione tra un soggetto specifico (il personaggio “Anna”) e il mondo.

I due elementi non sono in relazione di continuità o persino di identità, ma si confrontano in modo netto e antagonistico: l’isolamento del personaggio nella propria interiorità sofferente si flette nel non fare altro che morire.

E anche se la dimensione altra del mondo esterno va a capo, quasi con indifferenza e distacco alla sofferenza individuale, ciò non basta a salvare o a consolare, né, meno che mai, a distrarre dal sé, che perdeva ancora sangue / ancora.

Ed è di perdita che si parla, perdita innanzi tutto dello stimolo relazionale che comporta la possibilità di accogliere l’altro-da-sé, in senso ampio, che porta a uno smarrimento patologico, esplicato in una trascuratezza relazionale e nei confronti della propria interiorità sofferente (Lo smalto scrostato / le doppie punte, la vita / in riserva).

Questo sentimento è tutt’altro che vuoto, e difatti il vuoto è principalmente di senso e di realizzazione di un senso di connessione con le cose e gli altri: è un vuoto pieno di elementi che impediscono il suo concreto superamento o una possibilità di pacificazione, al punto di far meravigliare Anna alle parole di un qualcuno che le dice “Ti amo”. “Perché?” chiede, e il fallimento relazionale e comunicativo è manifesto.

Anche l’ultimo testo, che propone una chiave a questo reticolato insolubile e doloroso (Solo l’amore non scade, viene detto in chiusa), trovando forza nel ricordo degli affetti familiari e nelle radici della memoria (proiettati inesorabilmente verso l’incertezza) offrono sì un sostegno cementato dentro il cuore, senza però offrire un superamento alla tragedia relazionale e di connessione umana, che appare ancora affetta da una apparente, reciproca inaccessibilità.

O forse, come suggerisce Magrelli, chi parla del veleno / vuol dire che già si è curato.

Non è da escludere, considerato che i versi più consolatori e di proiezione di senso appartengono a testi scevri dalla maschera retorica di “Anna”, mentre quest’ultima vive come nell’attesa di un miracolo che non avviene, ma di cui non ha ancora del tutto perso la speranza.

E forse anche Anna, prima o dopo, sarà la protagonista dell’abbraccio in cui sono cullati madre e figlio – e anche se così non fosse, l’ammettere una possibilità positiva resta un segnale di orientamento e l’ostacolo finale a una definitiva resa di fronte al vuoto che Piergigli tratteggia.

 

Mario Famularo

 
 
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