Linea di cattedra su Laboratori Poesia

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da Laboratori Poesia
 
 

La poesia che si fa vita, carne, speranza e sofferenza, che assorbe le sonorità e i silenzi delle pareti di casa trasformata a mesi alterni in una scuola improvvisata: il respiro dei versi della giovanissima insegnante e poetessa Alice Serrao si tramuta in un vortice di immagini con questa silloge che accende i riflettori sulla pandemia, virulento periodo che ha strozzato l’adolescenziale spinta alla conoscenza. “È nuda la classe” è l’espressione in cui si raggruma il significato della Dad, acronimo di recente creazione seppur ormai introiettato nell’immaginario collettivo, che sfilaccia i comportamenti e le relazioni sino a renderli virtuali, voci fuggite da un dispositivo elettronico verso un altro dispositivo elettronico, metalliche presenze in cui non esiste più lo spazio-tempo eroso dalla Gorgone del Covid-19. Così non resta altro da fare che “riappropriarsi del gesto” fino a che la connessione regge: l’amore, invece, quello regge, resta, si sedimenta pur nella distanza “che brucia sulla pelle”, perché quale altro sentimento poteva contrastare l’inferno se non l’agape dell’insegnante verso i suoi allievi e la materia che li fortifica e li unisce ancora, come sui banchi silenti e vuoti. Uno sprazzo di vita estinto, soffocato davanti ad un monitor in quello che è un “esilio a casa” mentre “la scuola soffre nella parola/politica a vanvera/che non ci guarda preziosi/che non fa abbastanza”. Lo iato, la cesura che staccano il mondo dei governanti da quello degli insegnanti aumentano fino a logorare completamente ogni interazione e ‘trascolora’ l’Italia: “La scuola nella nuova fascia/cambia, trasecola/, mentre l’italietta canta i fiori/ginepraio della riviera”. Eppure tutto questo rende audaci poiché “l’uomo si riconosce solo nel cambiamento” sia pure quello figliato da una metamorfosi forzata, violata dagli eventi, tra mascherine indossate naturaliter e distanziamenti a negare ogni contatto. La solitudine, secondo Leopardi, rappresenta una magnifica lente d’ingrandimento e così appare anche nella composizione di Serrao dove l’essere soli si sostanzia nel sentirsi soli, drammaticamente tali: presenti sì, costantemente, “in ventotto posti dalle nostre postazioni” eppure sideralmente distaccati dal cuore, dalle mani, dagli occhi dei compagni. Se la scuola costituisce una finestra aperta sul mondo, come bene scrive Claudio Damiani nella prefazione, il docente, colui che insegna, istruisce, ammaestra, è l’occhio che vede, che coglie in profondità tumulti e sommovimenti di un’età di cambiamenti, di avvisaglie sulle esistenze di futuri uomini e donne, nel bene e nel male. Dante, Virgilio, Omero, Anna Frank, Sant’Agostino riprendono ad essere l’interrotto fermo immagine tra i banchi. Dopo la tregenda la memoria non si è affievolita (“conosco cosa si vede da tutte le finestre”) e si rafforza quel senso di umanità, quel comune destino che la natura ci ha recato con sé e che ha unito docenti pur diversi per indole ed esperienze (“Toccare nei tuoi fianchi la rabbia che è anche la mia” e ripassare “il lungo debito che ho con questo posto”). L’esperienza temibile del distacco e delle regole obbligate che fanno “gli occhi vuoti ai vetri” si è (forse) definitivamente compiuta: si avanza ma a passi felpati e timorosi, e un’eco lontana ci giunge a ricordarci: “Non abbiate paura”. Solo così, probabilmente, si tornerà a germogliare nel prato verde di una scuola che troveremo cambiata e lei con noi, per una nuova sfida della conoscenza da vivere insieme, nonostante tutto.

Federico Migliorati

 
 
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