L’età verde su Laboratori Poesia


da Laboratori Poesia
 

Le poesie dell’Età verde si colorano non di un solo verde, ma di tanti verdi, di tutte le sfumature di verde che ogni lettore potrebbe immaginarsi, e di altri segnali archetipici. Forse è solo una concrezione culturalizzante, forse no, ad ogni modo il bosco delle bambine ha un forte potere evocativo, come le fiabe, magari quelle alquanto oscure dei fratelli Grimm. La selva è quella dell’idillio, della spensieratezza, o ci si deve aspettare uno spavento, qualche apparizione malevola, lupus in fabula?

Né l’una ne l’altra, forse. E’ più un non luogo enigmatico, allegorico, senza un tempo rigorosamente scandito (la maggioranza dei verbi è in un presente che ricorda l’imperfetto onirico), dove appaiono il Padre, la Madre, il Maestro, l’Ombra, l’Amato, ognuno con una specifica funzione, e altri elementi di una criptica geografia, come il fiume, e il latte del mattino, le bacche e le scarpette rosse, una bestia, arco e freccia, persino il grimorio con gli incantesimi e i sassolini per segnare la strada. Anche la bambina non sembra avere una specifica identità, “sa di essere molte in una”. Pure, conta, enumera, e “tra i denti la bambina ha l’alfabeto, lo tiene stretto come una cosa cara”; sa tante cose, ricorda tante cose, e si domanda tante cose, e quindi in definitiva il bosco è il posto dove si scontrano il noto e l’ignoto, il luogo del conflitto ancestrale, della nascita e della rinascita, del mutamento e della crescita, non quello della pace e dell’oblio, sebbene ogni tanto il sonno si frapponga a questo accidentato processo che passa anche attraverso la consapevolezza del dolore e della morte. Il sonno talvolta capitava anche a Dante nella selva, d’altronde

Ma non è il luogo in cui restare indefinitamente; e infatti alla fine la bambina esce dal bosco lasciandovi incisa “solo” una storia.

La seconda parte della raccolta, oltre al titolo Nel verde degli anni, pone un altro collegamento con la prima, nel verbo sradicare, e poi in altro, in un’autoesegesi fuor di metafora, come ancora nella figura del padre “cacciatore”: prima, il Padre “ha praticato il silenzio”, e ora sta “muto” somministrando castighi, compreso nondimeno un “perdono / fermo, affamato, silenzioso”; a volte dimentico di una data importante; certo logorante, esasperante come lo stillicidio della “goccia del lavandino che perde / per ore per mesi per anni”.

E la madre “primavera” è invece l’antitesi del silenzio: “ci hai dato parole nuove / per tornare a chiamare il mondo”, per coglierne la fioritura e la “meraviglia”.

Flavio Vacchetta

 
 
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