Schianti a sconfine, la breve ma densa silloge poetica di Mara Donat, raccoglie, come scrive l’autrice nella nota alla fine del libro, “gli ultimi “schianti” di una ricchissima esperienza di emigrazione in Messico […] non i tesori acquisiti […] ma le schegge rimaste addosso da quel vissuto, tra l’accoglienza e la disappartenenza, un’instabilità anche interiore negli spazi e nei sentimenti“.
Metafora di queste esperienze telluriche è il corpo: instabile, che smotta, si frange, cerca più volte di ricomporsi, forse in altre sembianze, ma che più spesso viene semplicemente contemplato in atmosfere fugaci e strutturalmente precarie.
La prima poesia, Smottamento, include già tutto il materiale che nel corso dell’opera verrà poi svolto. Esordisce con una domanda semplice e disarmante (Dimmi,che cos’è il corpo?), posta da una voce solitaria in uno scenario marino e polare (consono per raccogliere in un unico colpo d’occhio il movimento e la sua negazione). Il naufragio è iniziato, e già la realtà sta tentando nuove forme (Io sto nell’errare / mi si sperde questo corpo / in frantumi di azzurrro. / Guardo il ghiaccio. / Ogni cosa nel suo stare adesso). Compare poi un elemento, la parola (vorrei che la mia parola / aderisse al mondo, corporale), intesa come scrittura, e che nella seconda poesia, Notti straniere, assume la valenza di antidoto (pharmakon) contro la deriva: una parola che vuole farsi “corporale”, quasi a sostituire il corpo che ne faceva da supporto e che ora non c’è più. “Crollerà ancora, / la voce mia di pane?“, viene chiesto in chiusura del componimento, evocando un simbolo, il pane, che si staglia come inaspettata opera umana dopo lo scatenarsi degli elementi e la vulnerabilità del corpo; pane che, spostando il punto di vista dell’immaginario, è anche simbolo di condivisione, relazione (anche e soprattutto fisica), momentaneamente interrotta dall’assenza di corpo.
In questa prima poesia c’è già tutta la feconda armonia di contrasti che coinvolge in particolare la prima sezione del libretto, in continuo bilico tra volontà di ricostruire e incapacità di farlo, tentativi di assumere nuove forme e dimensioni dell’essere e incertezze invalidanti, alimentate anche da un rapporto problematico con l’altro (È asettica l’unione / in questa farsa narcotica / privata e priva di corpo, / immune dai contagi, scrive Donat nella terza poesia del trittico Notti straniere, configurando come “amoroso” questo altro). Tutto ciò si mostra anche dal punto di vista della scrittura, della scelta di vocaboli che esplorano forzature semantiche invero necessarie per veicolare al meglio le tematiche espresse. I versi sono brevi, ma la sensazione non è di ansimo, nè di respiro corto, piuttosto di respiro piccolo, e tuttavia funzionale a sostenere assunti abissali come quelli proposti da Donat, riconducendo così un discorso altrimenti poco contenibile ad una dimensione più umana.
La sezione centrale si pone come diaframma tra la prima e la terza: non per niente Donat l’ha titolata Intermezzo mitico. Qui troviamo quattro invocazioni a numi femminili dell’antica Grecia, ai quali Donat chiede di sostanziare e patrocinare (o meglio, matrocinare) la parola/scrittura per poter “vincere il disincanto“. Il verso si fa più classico e il componimento più epigrammatico, come ci si aspetterebbe dai riferimenti messi in campo.
La terza e ultima sezione, A sconfine, principia con il trittico Smarrimenti, con il quale Donat dà nuovamente voce allo sconcerto e alla provvisorietà (Non so che dire / del mio corpo, dell’esilio) che trova il suo correlativo e la sua chiave di lettura, per così dire, nella natura (Gli uccelli migratori / bisogna amarli così, / come essi sono). Ecco, la natura: in quest’ultima sezione Donat, inizia a negoziare un compromesso proprio con la natura per trovare un nuovo destino a questo corpo schiantato: se non è stato possibile ricomporlo e ridargli forma, allora è nel mondo, nel cosmo che il corpo deve ritrovare, ricostruire il suo posto (Ma l’uccello esule e solitario / è un corpo che non appartiene), anche grazie a un’indefessa ricerca della (e nella) parola, vero e in fondo unico bagaglio del nomade. Quasi ne fosse gemmazione, il trittco prende le mosse dall’incedere da epigramma classico dell’intermezzo mitico.
Le ultime due poesie, Ringhiere e Miraggi di una viandante, chiudono la raccolta come se fossero pannelli speculari. La prima, prendendo le mosse dall’attuale e tremenda contingenza dei migranti e dei rifugiati, sembra essere la negazione dell’auspicio di panica comunione con una realtà senza frontiere (Non ho inventato io le frontiere / i corpi come stringhe di rame, le dita dietro le ringhiere); la seconda, dove l’io poetico si identifica con il destino del viandante / carovaniere e lo fa suo, traccia invece quel negoziato con il Tutto, quella ricerca di comunione che è perdersi cosmico, la quale ormai viene percepita come conditio sine qua non per essere libere: Esule come stella d’Oriente / ogni luogo mi è / dimora. Dalle sabbie / le antiche carovane / aprono ancora le strade.
È questa la luce che pervade le poesie raccolte in Schianti a sconfine: una luce tenue, ma costante di una stella, o forse di un frammento, uno tra miriadi, che vuole tornare al luminoso Uno.
Federico Rossignoli