Da “Unonove” – Su “La gravità della soglia” di R. Cescon

“La gravità della soglia” di Roberto Cescon

di Giulia Rusconi

«Et videor mihi alieno foro litigare» (e mi sembra di dibattere cause in un tribunale straniero): è con questa citazione, dalla Epistola prefatoria di Marziale (XII vol.), che Roberto Cescon sceglie di aprire il suo libro. Si dibattono cause, dunque, nelle sue pagine, ma non si gioca in casa. “Straniero” è estraneo, è fuori dalle mura, è oltre confine. E il titolo ci riporta esattamente qui, in questo non luogo: La gravità della soglia, in cui in ‘soglia’ c’è un dentro e un fuori, un di qua e un di là, un essere presenti o non esserci affatto. È una soglia che mi ricorda i luoghi non giurisdizionali del Franco cacciatore di Giorgio Caproni: «Fuori barriera, forse. / Forse, oltre la dogana / d’acqua… / Dove il canale / già prende l’erba, e il vento / è già campestre… / […] / Prova. / Al di là del male / e del bene. / Dove / già sa d’acciaio il vento, / e un coltello è il canale». Fuori città c’è la terra di nessuno, la frontiera, al di là della quale nulla più è certo e ci si deve rimettere all’oscuro. Ma Cescon, e qui il nostro smarrimento, intravede l’oscuro nelle cose che ha attorno, come se ci fosse sempre, proprio dentro la nostra casa, qualcosa che non collima, lasciandoci perplessi. Le cose, scrive, sono “distanti” e questa distanza va riempita. Ma anche il tempo è beffardo e non consola, anzi: «Eppure le ossa si allungano e i visi / degli amici tra le tombe nelle fotografie / quando eravamo a cena con i sorrisi / e riuscire a sperare era normale // e compravano giornali / di giorni che non esistono più.». È un tempo che, al posto di avvicinare e riempire, allontana, svuota, e allora gli oggetti si fanno sinistri: il bucato è “maroso”, i gesti sono mescolati e “sgranati”, le radici sono “curve”, il sole “asciuga le colpe”, “il vento nell’erba è tradirsi”.
La lucidità nel descrivere questo inquietante “anello che non tiene” emerge a monito grazie a immagini di tutt’altro tenore: Cescon accosta ai sentimenti zoppi un’andatura leggerissima: una luna “luce liscia sull’asfalto”, i cortili e gli orti “puliti”, i rami sono “rosa”, le radici, anche se “curve”, «malgrado distanti, mi parlano ora». Cescon dosa così la sua personalissima soglia, è nel comune e docile guardare che intravede l’orrore. «Ma la vita ti lascia senza motivi», scrive, e ci racconta attonito di un suicidio, di un trasloco, di una madre che muore, di una violenza, di una malattia, di un funerale, «perché vivere è tragico a volte, / sapendo come finirà / e rimanere lì, come pollini». E più avanti: «Nelle cose c’è una polvere triste / adesso che è l’ultima festa, l’ultimo / ballo, per gli amici di sempre, / nient’altro da dire, solo pagare».
Tutte le paga l’io di questo libro, un io che non si dimena, ma resta dimesso a guardare con occhio fermo, non si sa se imbambolato o chirurgico. Anche la voce è cauta, rimane rasoterra, fatta di parole semplici e precise, affinché tutti possano attraversare la soglia, la soglia grave che investe la vita.
Ma non può finire così. Il libro di Cescon, e qui il secondo motivo di sorpresa, non lascia con l’amaro in bocca, si apre a due forme di redenzione che il lettore si ritrova ad accarezzare, tirando il fiato. Una è la parola poetica a cui viene affidato uno straordinario potere salvifico: «Le parole quando si impadronivano / dei giorni era un modo per salvarsi, / il solo». E tornano, le parole, più volte e ad esse è associato il riempire: riempiono «la carne che ogni cosa vive» e «una lama di luce» che afferri il giorno e non lasci venire buio. La parola copre «la distanza dalle cose», avvicina i lembi della soglia: la terra di nessuno si fa sottile, fa meno paura. E, infine, l’altra redenzione, più dolce: è l’amore, un amore che emerge nella seconda metà del volume e che cresce nel finale: «Non so come chiamarlo questo bene / che ti voglio quando mi sveglio / e vicino le coperte / respirano calde. // Non so come chiamarlo questo bene / quando guardo il soffitto, tu il mio petto / e parliamo di ciò che saremo. // Questo bene non ha nome, oppure il nostro». La scrittura e l’amore (la vita), quindi, come rimedio al caos dell’esistenza e alla paura che preme. Bisogna, bisogna resistere, non cedere ai vuoti, «con la forza di un girasole in inverno», scrive.
Voglio chiudere con i versi di Roberto Cescon: che siano un augurio per nostre personali “impronte”:
È una salita difficile oggi,
meno di ieri. Certi pesi da liberarsi
con le parole che assediano il dubbio.
I passi sono pagine di un moto
per resistere sotto le nuvole.
L’azzurro è un odore nei gesti
che sono stati annegare
nel ventre e fermare il respiro.
Anche se ci sarà niente lassù
Resteranno le impronte, per chi le vedrà.
Roberto Cescon, La gravità della soglia, Samuele editore, Fanna (PN), 2010, pref. Maurizio Cucchi.