Da Prospettive del 4 giugno 2016
inserto periodico ne L’Azione
a cura di Alessandro Moscè
La dissolvenza nella tragica dolcezza
di Elisabetta Monti
Alessandro Canzian (nato nel 1977, vive e lavora a Maniago) è un poeta dell’amore mancato, o perduto, ma ciononostante vissuto ossessivamente. Un canzoniere di ciò che sfuma e non ritorna, capace di infondere una garbata misura all’interazione con l’altro. Il colore dell’acqua (Samuele Editore 2016)è introdotto da una prefazione di Mario Fresa che capta immediatamente “l’esilio delle cose” nel quale annega l’esistenza intera. È un’esistenza amorosa, sentimentale, accerchiata dalla lontananza perturbante delle persone. La scrittura di Canzian è vagamente prosastica, narrativa, ma melodica. Il poeta racconta, dice, aggiunge, spiega, ragiona in un’eco sereniana, caproniana (“Sai, potrei dirti che / ho provato un male inimmaginabile / a sentirti andare via. / Che ho pensato anche di morire / nel banale desiderio di farti un po’ del male”). Le figure femminili sono sfumate, presenti e assenti, ideali e allo stesso tempo distinguibilmente legate ad un sentimento disilluso, cantato. Una poesia che ogni volta ricomincia da capo, che referta una cucitura reale e non letteraria (quindi non artefatta), assurta ad offerta nel raggio espressivo e di verità biografica della parola. L’esistenza viene intravista in un marchio filigranato, in quello stupore per tutto ciò che è sfuggito di mano e che determina una trasparenza vuota, in controluce: “Dai finestrini sporchi il freddo. / La neve in mezzo ai campi. / Il paesaggio sa di case / e di cose che non tornano. / Sono cose anche le persone / che nel freddo non respirano”. Dicevamo di un poeta che racconta, ma Alessandro Canzian sa anche evocare in una lucida intermittenza. Il verso è elegante, piano, asservito ad un’intenzione umana e temporale. Fresa parla di “tragica dolcezza” riferendosi alle tessere, alle tracce, ai legamenti del ricordo. Canzian assomiglia ad uno dei poeti più solitari e decisivi del secondo Novecento, Ferrucco Benzoni, che aveva fatto della poesia privata, domestica, una rappresentazione universale di luoghi della coscienza e di anime riconoscibili specie nel passato, con una funzione straniante, ma palpabile. Nell’ultima sezione dal titolo La ragazza di nome Olga, la poesia di Canzian viene spinta nell’armonia del disincanto tra vista, percezione e sottrazione: “Viaggia spesso per lavoro. / È dalle intercapedini del muro / che conosco la sua fede, notturna, / quando prega Dio con le ginocchia”. O ancora: “La ragazza Olga / si taglia le unghie ogni martedì / mattina, quasi fosse un rito, / una cosa importante per il mondo”. Il sentimento della perdita, o dell’esclusione dalla vita dell’altro, è una garanzia di soggettività per una composizione breve, irriducibile, avviata ad una malinconica osservazione e rivisitazione. Ma la sofferenza del non avere, coincide, ci sembra, con l’accoglienza. Cioè, Alessandro Canzian respira l’atmosfera della convivenza anche nelle ombre, nel vuoto da una stanza all’altra, da un’abitazione all’altra: “L’odore di Olga passa in mezzo al piano / anche se lei è assente ormai da giorni. / Fa la tromba delle scale, l’ascensore / che non funziona, fa l’entrata / che sembra quella di un albergo / anni sessanta, non esiste, come Olga, / anche se si ostina a credere il contrario”. Tanto che Olga, appunto, potrebbe essere un’invenzione nell’indefinita provvisorietà, una dissolvenza perpetuata nel tempo. Se dovessimo inserire questa poesia nel variegato e disperso universo italiano di oggi, non sarebbe difficile affermare che Alessandro Canzian rifugge da tutto ciò che è costruzione linguistica e programmatica. È l’esperienza il suo dato fondante, con punte immaginifiche per corredare il vissuto ad una partecipazione più intensa e tutto sommato, seguendo la tradizione, lirica.
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