Da Imperfetta Ellisse
Leggo di questa opera di Vincenzo Della Mea, presentata come una novità o forse una innovazione, creata utilizzando l’intelligenza artificiale (AI) di GPT-2. Leggo nella nota editoriale: “Vincenzo della Mea ha usato GPT-2, prima “addestrandola” introducendo circa 12.000 poesie (ma anche testi di informatica e di neuroscienze) lasciandola poi libera di creare poesia. La seconda fase è stata eliminare da questa super produzione le poesie che avevano troppi debiti o errori grammaticali, tramite dei software progettati dallo stesso autore umano, e infine scegliendo tra le rimanenti secondo il gusto dell’autore umano”. Tralascio le considerazioni presenti nella stessa nota, che magari vediamo dopo. Questo il fatto, di cui dobbiamo prendere nota, anche se la prima reazione l’ho espressa in un commento, una battuta, su FB (“Bravi, ora chiedete a GPT anche la recensione”). Ma dobbiamo trarne qualche lettura, se non altro per il fatto che secondo me si tratta di un brandello neanche tanto piccolo di quella complessità di cui si discute in diverse sedi.
La prima cosa che viene in mente, forse, sono i riflessi di questa faccenda sul concetto (primario nel campo dell’arte) di autore. Con una certa astuzia (o modestia) Della Mea parla di sé come “autore umano”, cioè fa un passo di lato, che però è quello del demiurgo asimoviano che dà l’input e controlla che la macchina svolga in maniera soddisfacente il suo compito. Se autore, in etimo, è colui che aggiunge, che fa crescere qualcosa, che inventa qualcosa che accresce il mondo, certo Vincenzo in questo caso lo è. Lo è perché ha le competenze, anche informatiche, per creare o adattare uno strumento, ha le competenze per gestire un’idea, un paio delle cose che deve avere un artista per crearne un’altra. Idea tra l’altro di per sé non nuovissima, in letteratura, pensando a Balestrini (Tape Mark I, 1962), a Silem Mohammad e il suo “googlism”, ecc. Ma già nel 1952 Christopher Strachey, un amico di Alan Turing, aveva creato un programma che scriveva lettere d’amore con una lista di lemmi tratti da un Thesaurus e andrebbe anche ricordato Theo Lutz che nel 1959 a Stoccarda, usando un computer Zuse S22 produsse delle poesie (Stochastische Texte) attingendo a frammenti del romanzo Il castello di Kafka. La storia è lunga, mi fermo qui ma bisognerebbe citare almeno H.M. Enzensberger (Poesie-Automat, 1974-2000) e, a livello di pensiero, il Calvino del saggio Cibernetica e fantasmi (1967).
E nelle arti visive o plastiche non è andata diversamente, in questo tentativo di “intrusione” umano/artefatto: dal ready made (in fondo anche l’AI fornisce un “prodotto” pronto) fino al NFT (come “firma” certa di un prodotto “incerto”) passando per opere come ad es. Edmond de Belamy, un ritratto creato dal collettivo Obvious (che nemmeno sono artisti) usando una rete neurale (e venduto a 432500 dollari!). Idem per la musica, non sto a fare nomi.
È anche vero, dunque, che ognuno crea con i mezzi che ha o che magari si inventa, si costruisce. Il punto è che cosa succede quando il mezzo travalica l’utilizzatore, lo influenza, il suo essere “oggetto” non è più così scontato, e nemmeno il suo essere un non-soggetto. Nessuno degli esempi letterari storici citati sopra utilizzava strumenti “generativi”, erano di tipo combinatorio, computazionale e spesso somigliavano a un cut up con altri mezzi. In un ambiente AI invece si suppone che la macchina non sia solo una forbice (oggetto) che taglia un testo in stringhe, ma che elabori “soggettivamente” – seppure sulla base di istruzioni – una selezione da una massa di dati linguistici che in potenza è enorme (più delle 12000 poesie fornite da Della Mea). Selezione che per il momento deve essere sottoposta all’occhio di un buon editor – “tramite dei software progettati dallo stesso autore umano, e infine scegliendo […] secondo il gusto dell’autore umano”, scrive Vincenzo – ma che tra breve o forse già oggi sarà in grado di scrivere un intero poema, magari fornendogli solo il tema principale o lo stile generale. Ma nel frattempo trovo abbastanza divertente questa macchina post-saussuriana che si muove tra l’asse della selezione e quello della combinazione, per il momento traballando. Anche perché la referenzialità e la fonte, vicendevolmente limitati, sono un altro dei problemi. Mi spiego meglio: in termini linguistici molta parte del discorso dipende dalla capacità di riferirsi ad “altro” sia fuori che dentro il linguaggio, qualcosa di molto vagamente simile all’alludere. Se la fonte è limitata (e 12000 poesie lo sono) il mondo linguistico che fornisce (e la sua referenzialità) è limitato, anche se la macchina è di quelle intelligenti i rimandi, le connessioni ecc. sono come echi in una piccola stanza. Solo un certo margine di casualità, lo stesso che sperimenta ogni poeta di fronte alla scrittura ma certo non maggiore di quello trattandosi di una randomizzazione, può dare l’illusione o la speranza di quell’aura che si tende ad attribuire alla poesia.
Giacomo Cerrai
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