Corpi solubili su La Poesia e Lo Spirito


 
da La Poesia e Lo Spirito
 
Mario De Santis, Corpi solubili, PordenoneLegge-Samuele editore, 2023

I versi di Mario De Santis, cronache da un desolato occidente votato alla consunzione, esistono mentre si negano nella loro natura poetica: evitano ogni eccesso, in obbedienza al clima (parola chiave) della nostra epoca. La poesia lancia gli ultimi barbagli luminosi mentre si scioglie nella prosa.

In una sorta di diario in cui la memoria cancella e confonde, con un incedere sempre più prosastico, per accumuli, si sedimenta una musica di fondo, la voce del tempo che si nutre dei nostri corpi solubili. La storia è ben presente, ma è un’eco lontana, e quando sembra passare la sua lama a pochi centimetri da noi viene registrata come un dolore anestetizzato, con una lucidità che non vacilla, non genera sopratoni: la voce non perde il suo timbro pacato e netto. I surriscaldamenti verso un registro più tragico sono quindi piuttosto limitati; il tessuto del discorso si increspa rare volte e assorbe con disinvoltura anche gli spunti lessicali più preziosi, parole in inglese, in particolare, ma anche citazioni, frammenti soprattutto da un repertorio popolare di canzoni, o più rari intrecci fonici (“nel game dei gameti”, “dell’osso o per os”, “Si smette di scommettere”, “la melma muta di schiuma”). Il flusso della quotidianità domina quindi sulle vicende: “L’obbligo a seguire, della storia, ciò che se ne genera / non interessa più a nessuno, nemmeno a noi la nostra. / Le previsioni meteo alla tivù sono l’unica trama: la tempesta / dura da ieri, non era attesa e non era nemmeno un futuro” (p. 34). Non si cerca la scena allegorica, la situazione altamente emblematica: la bufera montaliana non ha più senso. Del resto, lo stesso Montale intraprese a suo tempo il rovesciamento del tragico, avviando la sua seconda stagione creativa. Le rinunce a questi effetti di superficie sono ancora più nette, in De Santis: non emerge, malgrado una prosodia consapevole, uno scheletro metrico, né compaiono rime, neppure dissimulate: eventuali occorrenze saranno casuali, e in ogni caso non squillano, non segnalano nulla. Il testo non si appoggia ad alcun elemento costruttivo verticale. Tali rinunce a effetti di superficie, che rendono meno riconoscibile il testo in quanto poesia e quindi accettano un primo approccio alla raccolta meno redditizio, si direbbero necessari in vista di una maggiore profondità di voce, di una consapevolezza pacifica e drammatica insieme: l’assenza di trauma, nella nostra epoca, è il trauma stesso da registrare, e la sua registrazione sarà possibile solo con una strumentazione dimessa, non aggiornabile rispetto alle mode. Il soggetto, pienamente novecentesco, non si azzarda a recuperare posture eroiche, non ipotizza alcun riscatto (“non essere niente, / invece che fare teatro dei disastri o di piogge inattese”). E viene in mente Vittorio Sereni, sicuro riferimento anche nel percorso poetico pluridecennale dei Corpi solubili: “Questa è la musica ora: / delle tende che sbattono sui pali. / Non è musica d’angeli, è la mia / sola musica e mi basta”.

Andrea Temporelli

 
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