A ciòka di vèci
Amilcare Mario Grassi
Pagine 84
Prezzo 15 euro
ISBN 979-12-81825-25-3
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Prezzo 7 euro
Sono abituato a leggere la poesia di Raffaello Baldini – che scriveva nella lingua di Sant’Arcangelo di Romagna – e, per quanto lo abbia sentito leggere in vita la sua opera in dialetto, non smetto tuttora di correre alle bellissime traduzioni a pie’ di pagina curate dall’autore, e quella è di fatto la poesia di Baldini nel mio archivio mentale. Come ripete spesso l’amico Paolo Nori, c’è una perfetta continuità fra il dialetto e la lingua italiana, come se il poeta avesse scritto due volte. È quello che mi succede anche con Mario Amilcare Grassi, da quando sono entrato nei suoi versi, e nel suo universo. Forse, per una povera confidenza con i suoni del suo dialetto, spesso mi avventuro anche lì, e talora ho luminose sorprese, come se un suono mi prendesse alla spalle, chiedesse udienza. E ben sappiamo che essere udito è il destino della parola.
L’occasione di questa nuova raccolta di Mario Amilcare Grassi ha una sua vereconda solennità: l’aver superato una importante soglia di tempo. “Sono ottanta i miei anni / e camminano troppo svelti”. Questa de senectute abbraccia liricamente “la testa dei vecchi”, la tiene stretta con dolcezza, come si potesse spremerne una saggezza, e di fatto è quello che succede, attraverso la costanza della visione e del sentire. Siamo in un paesaggio noto – né potrebbe essere altrimenti – e non sorprende percepire gli anni come una sequenza di carpini, alti nel bosco, messi in fila, i più giovani e i meno giovani, promessa di umile bellezza in entrambi i casi. Il passato del resto non si piega remissivo: è per lo più un ritornare vivo di figure vive, è un conciliante agglutinare di ricordi, di luci che confondono le età.
da I migranti senza il sogno di tornare
di Alberto Rollo
Ciao Mario, ci siamo, diventare vecchi è un giusto diventare. L’abbiamo meritato, non è solo fortuna o il suo più esatto plurale: fortune. Scrivi che i vecchi migrano, senza cambiare terra, scoprono la durata dei giorni, il perfetto periodo che va da buio a buio. Abbiamo usato un pubblico e affollato pronome: noi. È questa quantità che si è dispersa e in alcuni rimasti prosegue accanita. Questa quantità si è in noi rappresa e ha fatto callo nei nostri sorrisi magri. Fai bene a insistere coi versi nella lingua con cui parli con te stesso, io pure col mio napoletano, ma non lo scrivo. Fai bene a ribadire il tuo eccomi davanti all’assemblea piena di assenti.
da Una lettera
di Erri De Luca
Gèn otànta i mi àni
e i kamìne tròpo fìto
i zoanòti i vàn de fùia
da ka lùsa dond’i vègne
i ne fàn ke skapàe
me a m’aférmo, a mìo arlindré
per fàgi pù lenti pasàe
i arkòrdi gnò i gi tègne.
Sono ottanta i miei anni / e camminano troppo svelti / i giovani vanno di fretta / da quella luce da cui vengono / non fanno che scappare / io mi fermo, guardo indietro / per farli più lenti passare / i ricordi ragazzo li trattengono.
Quanti di mi àni ò visto pasàe!
En bulezùme de figùe
i òci i me fa sbaluzekàe
drénto n brusìo de gósa
arciàmi, risàte, sospìi
de viola vespertìn
a mi colìna a kovrìe
gi’arvègne tùti gi’arvègne vìì.
Quanti dei miei anni ho visto passare! / Un caos di figure / gli occhi fa abbarbagliare / dentro un brusio di voci / richiami, risate, sospiri / di viola crepuscolare / la mia collina a ricoprire / ritornano tutti ritornano vivi.
I rìzi d’òo de na dòna
setà da lù gh’è pàa de miàe
ar sóe, nde na bankìna
a pèla strasì i su òsi
stràki come resàka a coprìe
i òci spèrsi luntàn
i ne sa più dove
ma i senta drénto n dorzóe
a su véna a renfrescàe.
I ricci d’oro di una donna / seduto da solo gli pare di guardare / al sole, su una panchina / la pelle secca come risacca a coprire / gli occhi persi lontano / non sa più dove / ma sente dentro un languore / le sue vene a rinfrescare.
Bèi mi fànti
a fùse per voàrtri n radegón
ar kamìn a s-ciopetàe
a fàve kompagnìa
na bòcia de vìn bón
tùti i dì da rasemàe
per tùti lè dùa
savée da ndàe vìa.
Cari ragazzi miei / fossi per voi un ceppo / al camino a scoppiettare / a farvi compagnia / una bottiglia di vino buono / ogni giorno da rabboccare / per tutti è dura / sapere di andare via.
Né mà se ghe fùse
en Dio ki ne gh’è
le skùo di tu marmi
sóo lùsa i faì venìe
dar rìdee arnàto
di tu òci er mio
i tu bàsi a zerkàe
kon l’ómbia e di kanaón
l’arciàmo a zogàe.
Mamma se ci fosse / un Dio che non c’è / lo scuro dei tuoi marmi / solo luce farebbe venire / dal ridere rinato / dei tuoi occhi il mio / i tuoi baci a cercare / con le ombre e dei canaloni / il richiamo a giocare.
- A ciòka di vèci – Amilcare Mario Grassi
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