Nell’esercitare uno sforzo di lettura critica sopra a un testo di poesia, ci si può forse meravigliare, talvolta, nello scoprire il guizzo di alcuni poeti nel coniugare una perfetta ed esatta coscienza del proprio tempo – e del sé inserito in tale tempo – con l’intuizione quasi profetica di uno sviluppo o disviluppo possibile dei tempi che correranno. Così ci appare, a rileggerlo, il notissimo mottetto montaliano Addii, fischi nel buio, cenni, tosse…, contenuto nelle Occasioni (1939), quando il poeta, nel salutare la donna in partenza su un treno, lascia intravedere una crepa di sé, la percezione certa di un’avvenuta sconfitta interiore, nell’affermare che «forse / gli automi hanno ragione». E vale a dire, cioè: la massa, il discorso populistico e indifferente, «gli uomini murati nei loro compartimenti» hanno trionfato sulle nostre possibilità individuali. Il riferimento più esplicito – il «contenuto fattuale» di Benjamin – riguardava, nel testo di Montale, la società del fascismo allora imperante; ma a rileggerlo con buona prospettiva, il mottetto in questione sembra parlarci assai da vicino – e in questa costante e possibile risignificazione sta la forza di Montale come moderno classico, come ha brillantemente intuito Italo Calvino, tra gli altri – perché è esperienza e dato comune nella vita di chiunque, oggi, quando si è su un treno o in una stazione, l’avere ad esempio a che fare con persone «murate nei loro compartimenti», magari chiuse in uno schermo di cellulare, proiettate in un altrove che le rende distanti e in qualche modo meno umane, meno calorose. Nell’accentuarsi della società di massa, la solitudine tra i molti è diventata, ormai, vivere quotidiano. Nell’immaginare una sua visione del mondo, Francesco Terzago sembra essere partito da qui: dalla presa di coscienza che l’uomo-massa ha preso il sopravvento, che si sono capovolti i rapporti tra comunicazione e linguaggio, che il Tutto è stato rovesciato e risemantizzato. I suoi Ciberneti (PordenoneLegge-Samuele Editore, 2022) sono uomini incapaci di reazione, incasellati nei propri compartimenti stagni – calcificati, «murati», ossificati. Il sistema capitalistico ha reso ciascuno di loro un ingranaggio necessario, un momento isolato nella catena di produzione: distaccato, alienato, in grado di eccellere solo nella tecnica. La sua è una «narrazione poetica» (Medaglini) che si dipana attraverso un’unica sezione di testi, che assumono ciascuno la lunghezza e la dimensione di un poemetto, come se si trattasse di un mosaico di narrazioni sull’oggi, sull’ingegneria e sulla meccanica che governano il quotidiano. Come in Lucrezio, i fenomeni sono indagati nella loro estrema fisicità, senza mai piegare il tono verso un facile lirismo. La voce di Terzago è quindi ora distaccata, come quella di un narratore onnisciente, che si limita a osservare il reagire degli eventi (Cuoio), ora ricca di partecipazione, calata in una parte come persona loquens, alla ricerca di un punto di vista altro e alternativo, immerso nelle cose (Oltre cento metri di Buddha). È sorprendente, nelle poesie di Terzago, l’uso saldo e sicuro di una lingua intarsiata di termini tecnici e specialistici, che è in grado di piegare la sintassi al senso, e soprattutto di catturare i lettori in un vortice ipnotico, come «pescatori notturni ipnotizzati da un galleggiante / che lampeggia, fluorescente» (Il bisogno di energizzare il sistema albero). Il suo dettato è atono, ma scandisce i tempi di una realtà alienante: il tempo è orario, la fuga è possibile solo nel dettaglio, il moltiplicarsi delle immagini sostiene non mondi alternativi, ma ipostasi ulteriori del reale.
Federico Carrera
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