Carlo Pasi su Piano di evacuazione

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La Sovversione del pensiero

 

Improvvisi su

 

“Piano di evacuazione” di Flaminia Cruciani

 

 

 

La poesia è forse la forma suprema di scrittura perché si confronta con la vertigine del vuoto: il silenzio originario da cui affiora, sradicandosi. Ma non rinuncia totalmente al suo stato neonatale, ne fa anzi lo spartito della sua essenza sonora. L’intervallo, il salto nel silenzio da cui proviene diventa il luogo del suo rischio a perdersi. E i linguaggi smarriti nella notte non tacciono per sempre. Sembrano rigenerarsi dall’incubazione – sogno sotterraneo e profetico – che poco a poco li trasforma. E il soggiorno nelle tenebre diventa l’ossessione da cui scaturiscono frammenti di parole, gli “esseri scomparsi agli sguardi familiari” di cui scrive Baudelaire (Obsession).

In Piano di evacuazione  di Flaminia Cruciani, gli intervalli, – le buche sospese fra le strofe e i solchi delle parole – vengono incisi dal terrore dell’inabissarsi sfracellandosi. Del resto il termine stesso e-vacuazione si divincola da vacuum è lo strappo dalla sua cavità notturna, l’abisso come Caos. Nel titolo si incide quindi la genesi stessa della poesia come fuga concertata dal rischio dell’affossamento nell’ignoto, la sua origine e la fine. E qui, la fine è lo sgretolamento del linguaggio nelle ruote dentate di una dis-fatta. Non è forse l’impronta inscalfibile, il rischio-segno dell’atto poetico, il vorticare fino a perdersi nelle buche-tombe da cui a stento – con lo sforzo crudele-cerebrale (piano) si tenta di liberarsi?

Accosterei alla scrittura franta di Flaminia Cruciani due esperienze forti iscritte nello stesso campo magnetico del processo creativo: da un lato la demolizione clastica della condizione umana operata da Sade; dall’altro gli smottamenti del pensiero-linguaggio in Artaud.

 

Griglie di una spietata geometria incidono, con i loro con tratti metallici, la soglia visiva iscritta fin dalla  copertina di Piano di evacuazione. Nella loro forza di incarceramento sembrano rinviare alla condizione claustrofobica dell’autore delle Cent ving journées de Sodome  “un libro – secondo Bataille – che domina in un senso tutti i libri essendo la verità dello scatenamento (déchaînement) che abita nel fondo dell’uomo e che lui è costretto a contenere e a tacere” (La littérature et le mal). Recluso, oppresso nelle gabbie di quel che chiama il “pressurage” – l’asfissia di un pensiero spremuto contro il nulla -, Sade coltiva la sua collera rovesciandola in scritture in cui il fantasma, denudandosi, si torce nei tremori della “ulteriorità dell’Invisibile”, venata di ironia e ancora da esplorare.

La vita gli è stata sottratta: “Les entre-actes de ma vie – gli intervalli della mia vita – ont été trop longs – sono stati troppo lunghi – ci ha scritto. ” Gli “atti”, i gesti performanti dell’agìto sono stati negati, preclusa la tensione che spinge al contatto con il mondo ed il resto è silenzio. Ma nel fra (entre) che rinvia alla dimensione scissa di un teatro si iscrive la condanna a tacere. Forse è lì, dal silenzio, che cerca di liberarsi un’intensità vitale sospesa sopra il vuoto, il bianco, il solco della cavità insondata da cui irrompe l’avvento del fantasma e nasce la scrittura.

L’arresto forzato del suo corpo reattivo sembra annientare all’inizio anche la sua libertà creativa: la pulsione vorace del desiderio. Paradossalmente, però, sono proprio gli intervalli, (entre-actes), i vuoti esistenziali, a fecondare la sua forza espressiva rovesciando l’oppressione (pressurage), nella fonte fecondante di una scrittura che, nella solitudine esasperata, cerca il contatto impossibile con l’altro, e per questo si acutizza, si es-trema.

Nello spazio sinistro della claustrazione, alla Bastille, nasce così il racconto della rabbia. Trascina con sé le sue scorie malate fino alle punte eccessive della dissoluzione: l’opera che non avrebbe mai visto la sua luce, fatalmente perduta agli occhi del suo autore: “Forse alla fine la fatalità che Sade scriva e sia spossessato della sua opera possiede la stessa verità dell’opera: che annuncia la cattiva novella di un accordo dei viventi con ciò che li uccide, del Bene con il Male e si potrebbe dire: del grido più forte con il silenzio.” (G. Bataille, La littérature et le mal)

Con una torsione mortifera destinata a subire quell’affossamento da cui è sorta, gli intervalli, le scansioni sonore sospese sulle ferite, gli angoli ciechi del testo, si dispongono, in Piano di evacuazione in un’impalcatura di carattere teatrale. Si sintonizzano in tal modo con gli stacchi delle azioni sadiane – gli entre-actes. Quasi tali lesioni costruttive invocassero una “dizione” a più voci, una polifonia…

Il confronto con Artaud si compie sulla scena crudele – un teatro agìto che sovverte radicalmente l’ordine del discorso attraverso la pluralità dei registri ritmico-tonali. Nella nuova ottica spaziale si ribalta infatti quella dimensione securizzante che predispone il lettore all’accordatura lineare di un inizio e una fine pre-vedibili. Qui c’è lo strazio del disatteso nel moto a smembramenti seriali su cui si frangono gli echi di altre dinamiche espressive. Fuoriuscendo dal suo corpo strettamente linguistico la poesia si intromette a strappi nelle altre cornici artistiche evocando la musica, la pittura e la danza compiendo la traiettoria che attraversa il confine fra le arti dello spazio e quelle del tempo. Uno scenario plurimo che irrompe terremotando il sostrato verbale. Come se “forsennasse il soggettile” nel senso di Derrida che, a proposito di Artaud, ha evidenziato i disturbi sussultori del pre-verbale scardinato dalle fondamenta in una lacerazione-cauterizzazione delle sue fibre scrittorie. Anche nel Piano si scivola verso le macerie della scrittura franta che non rinnega però la sua origine smembrata, ne evidenzia le carni mal cucite, le slabbrature a squarci cercando una effrazione liberatoria verso l’oltre. E l’oltre è l’intreccio di saperi che dispiegandosi ad onde entrano ed escono dalla loro malriposte identità, anelano altri respiri. E la spaziatura dei linguaggi vortica nelle fluttuazioni quantiche di uno spazio-tempo che deflagri. Come in Artaud sempre nell’ottica derridiana è l’esplosione a contrassegnare la miscelazione fissurata, subatomica, dei corpi ora sminuzzati, corpuscoli della scrittura. Ma qui c’è come un’aria dell’infanzia quasi la fragranza del “verde paradiso degli amori infantili” ad intonare la promessa: “le note di Schön Rosmarin” aprono i loro veli nostalgici, rotolano lungo i pendii in cui le pitture di Chardin, le pareti filosofiche da Kant a Husserl a Derrida sembrano crollare e ritrovarsi nelle plaghe irriverenti dell’Alice per sempre ancorata all’ora del tè.

L’irriverenza permane, nasce il pensiero dell’irrisione sulla scia di Bataille e quel che chiamava la sua filosophie du rire. Ci si inoltra nei meandri del non-sapere, il pensiero diffratto che emerge dalle rovine di un sapere che si vuole assoluto o totalità gerarchizzata del sistema: ”Cosa guarda chi?/Chi guarda cosa// Dove origina la lucerna degli occhi/ la forbice sensibile dell’esperienza? Scrive Flaminia Cruciani, irridendoci. E l’esperienza scuote dal consueto, rompe con la fortezza del conosciuto, apre alla promessa dell’inatteso, il volto ridente-inquietante del non-sapere.

È infatti l’esperienza a caricare l’insensatezza di un non-sapere che nel rire scopre una sua forza tragica, la violenza assassina dell’amok: “Bisogna ritornare se è possibile all’intensità dell’amok e della tragedia, alla violenza” (Conférences du non-savoir). Bataille demolisce in tal modo l’accumulazione di un sapere diventato potere con i suoi linguaggi predatori, in forza della dissoluzione nel silenzio della poesia: “solo il silenzio può esprimere ciò che si ha da dire, in un linguaggio perturbato nella condizione mentale di totale disperazione” (ivi). E nel silenzio si scopre “l’assurdità del mondo”.

Piano di evacuazione è un’opera che demolisce non solo la singola “dizione monologante” (forse solo una voce notturna sarebbe in grado di enunciarla in un teatro d’ombre) e la grammatica stessa del fare poetico, ma esige anche, con prepotenza soffusa, altre modalità di ascolto, direi un contatto sinestesico in cui vista, udito, tatto e anche gusto ed olfatto creino una embodied simulation (coinvolgimento corporeo ) proprio attivata da quei neuroni specchio che spesso giustamente invoca. L’opera dovrà inventarsi quindi i suoi lettori (a questo punto fruitori appassionati, mossi dal desiderio di sapere) come tutto ciò che irraggia nuove espressioni che sembrano fluttuare come fotoni nello spazio-tempo quantico (altra dimensione che ostinatamente dischiude).

Si avverte inaspettato l’emersione dalla condizione dell’infanzia in cui la bambina Flaminia – Alice – si è smarrita nei labirinti del Multiverso e, vacillando, a tentoni, cerca una direzione possibile che la riporti nella sua dimora perduta. La casa che forse l’ha respinta con la violenza con cui rigettano i luoghi troppo amati irti di nostalgia. Il mondo è crollato sulle sue macerie, ma dalla distruzione, da quel “nulla consapevole”, da quel niente frantumato come le ultime parole, fluisce, una voce che ci chiama.

Il titolo Piano di evacuazione è una metafora possente di un abbandono. Chi è stato respinto dall’inaccoglienza della storia trova, in una fuga nell’Ulteriorità dell’insensato, forse nel disfacimento della spossesione e la follia, la rivendicazione di un riscatto. Dove ci si rifugia in un mondo da cui si è costretti a fuggire, essendo scardinate tutte le strutture protettive e “The time is out of joint” (Il tempo è dissestato)? Ci si volge allora verso l’invisibile, forse la materia oscura collassata nei buchi neri dell’origine. Ma, si sa, ogni specie di metafora è legata al sussulto corporeo. Nel disfacimento, il crollo universale, è il corpo che dice. Un corpo che non irraggia più la sua musica – come quei buchi neri che non emettono radiazioni – tuttavia cerca, esige, di essere ascoltato. Ma l’ascolto, ora, nel turbine polverizzato di frammenti, da una demolizione già avvenuta, non si dispiega più in un’acustica dell’anima, ma chiede, implora, contatti multisensoriali, fino all’essenza medullare delle propria ossa, il brivido che coinvolge. Straripa dalle sinapsi silenti del cervello. E i versi acuminati attivano aree dismesse del pensiero, aprono squarci nell’ignoto. Siamo di fronte allora a un doppio piano di evacuazione che solo in apparenza assume traiettorie opposte: l’una verso lo spazio-tempo quantico nelle sue fluttuazioni di particelle elementari, alla ricerca dell’inabissamento, – i buchi neri primordiali -; l’altra, più circoscritta ma forse più irraggiata, si dirotta verso “l’incorporazione simulata” attraverso l’attivazione dei neuroni specchio, assorbe emozioni, sensazioni plurime. L’insieme è scavato nelle piaghe di una carne che soffre e soffrendo invia messaggi ustionati che si frangono: rovine.

La forma-poemetto scandita per intervalli di strofe ritmate, musicali, esprime il forte impatto della “fuga” anche secondo i canoni di Bach: esposizione e ripresa di temi che si rincorrono all’interno di uno schema prestabilito. Qui un “piano” che subisce continue sovversioni. Si assiste infatti ad una deviazione, una rivolta – “il cuore è umano nella misura in cui si ribella”, (G. Bataille, La haine de la Poésie) nei confronti del linguaggio poetico della convenzione dominante. Sempre dall’angolo di incidenza di G. Bataille, infatti, “evacua”, devia dalla consuetudine che aspira alla “bella poesia”; enuncia l’assillo intemperante, tenace di una “insensatezza” che la sospinge a de-lirare: “La poesia che non si innalza al non-senso della poesia non è che il vuoto della poesia, la bella poesia” (Ivi). Ma è un delirio concertato, una deriva secondo un “piano” pur sovvertito che si riallaccia al contesto musicale da cui nasce.

In tal senso si potrebbe accostare – proprio per il rispetto della sua origine da schemi sonori ripresi e poi variati, – la scrittura “ritmata” del Piano di evacuazione  alle espressioni innovative e preveggenti di Marcel Proust alla vigilia della sua grande impresa nella Recherche : “Le sole persone che difendono la lingua francese (come “l’Esercito durante l’affare Dreyfus) sono quelle che “l’attaccano”, “Ogni scrittore è obbligato a farsi la propria lingua come un violinista il proprio suono” (Lettres à Madame Straus). Nella contaminazione con i registri musicali si può intravedere la possibilità di “farsi” una scrittura che spezzi le strette di normatività collaudate in vista dell’effetto emotivo della seduzione. Sempre nell’ottica di una trasvalutazione dei valori occorrerà ri-pensare la grammatica creativa della propria lingua : “non ci sono certezze perfino grammaticali” dice Proust ed il poeta è quasi costretto a riaccordare i propri registri verbali. Per Proust si tratterà di sovvertire la tonalità riconoscibile e protetta della propria lingua con accenti stranieri. L’opera innovatrice dovrà infatti risuonare come se fosse scritta in un’altra lingua. Per questo bisognerà allestire una sorta di teatralizzazione di piani espositivi che, come in questo caso, alteri gli schemi percettivi ordinari. Ci si immette allora nella messa in scena della lingua in senso artaudiano. Ma non solo gli intervalli o i bianchi fra i solchi delle parole spazieranno areandola la compattezza della massa verbale ma anche e soprattutto le frizioni sintattiche, gli squilibri lessicali, il poliglottismo spiazzante nelle rese acuminate dalla rivolta del pensiero . Non si può infatti disgiungere lo scardinamento delle forme, la “mise en espace” di destrutturazioni scritturali, dallo sgretolamento programmato di una rivolta del pensiero: Il rovesciamento del logocentrismo e fallocentrismo dominante (Derrida). La lotta contro il potere che opprime anche il linguaggio liberatorio della poesia.

Nel segno di Derrida Piano  esprime una sua forza scarnificante e ribelle che sovverte gli strati sovrapposti della scrittura. Fa vacillare sabotandolo l’edificio pericolante del linguaggio squilibrando i registri del gramma e della foné. Grafia e senso, come in uno spazio quantico collidono e collassano spesso invertendo l’ordine del discorso. Richiedono una doppia lettura acustica e visiva. Inconsciamente nel gioco perverso del non senso poetico, proprio il nome di Derrida è decostruito sulla traccia della Différence/Différance: E qui scrittura e pronuncia divergono confondendosi: Derrida/Deridda (scrittura diversa ma pronuncia uguale, in un gioco grammofonico).

Con gesto provocatorio ed audace Flaminia Cruciani si confronta così con il pittogramma dell’origine. Interiormente incespicando nella fase psicotica dell’originario che al di sotto della parola, nella zona del pre-verbale sommuove, l’immagine della “cosa corporale” toccando lo stato più arcaico della psiche (Vedi Piera Aulagnier, La violence de l’interprétation ). D’altro lato, mimando, in modalità acustico-visive, la scrittura cuneiforme pre-alfabetica di matrice sumerica. Qui è la sua formazione archeologica a scavare nelle vestigia delle origini pre-greche. Recuperando il gesto dello scriba incide con il chiodo-cuneo le sue frasi quasi sbalzandone il tratto del di-segno sottostante. E nel processo di stampo ideografico l’immagine rinasce, si staglia in una sua corporeità erompente, vergine…

Allora le tre pagine finali possono esser lette nell’ottica dell’embodied simulation (coinvolgimento multisensoriale) che ne rilevi declinandole le forme-forze di pittogrammi dislocati. E si pensa di nuovo ad Artaud ai tratti lacerati del suo segno che resta sempre alle soglie del di-segno come il verbo si contorce ai confini del pre-verbale, e gli strazi operati sulla pagina sembrano evocare i corpi massacrati in una tavola di dissezione. Ma accanto alla crudeltà del gesto che si rivolta conto il mondo sabotandolo, si esprime in controluce il gioco irridente del bambino che sporca e spiega e straccia il foglio su cui, evadendo, – Piano di evacuazione – ha liberato la sua sfrontata fantasia.

 

Carlo Pasi