Un buon uso della vita su Letterate Magazine

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da Letterate Magazine

 

Cos’è il non avere questa sicurezza nella menzogna di cui parla la poeta? Con questa premessa presa in prestito da Dickinson, Musetti schiude a lettrici e lettori un testo che somiglia alla possibilità di percorrere o meno quel Bosco che alla poeta di Amherst era raccomandato di non frequentare. Monito annoso rispetto a un pericolo certo, sicuro come una menzogna la quale spaventi per sottrarre vita a quelle che trasgredendo, si possano inoltrare proprio nel folto di quel Bosco.

Premesso che inoltrarsi nel Bosco significa anche e soprattutto inoltrarsi nella natura non addomesticata, questa prima parte del libro ha per costante in ogni poesia la descrizione della morte di una donna. Non propriamente la descrizione di una morte biologica ma piuttosto quel morire legato alle credenze che la paura eccita e che la poesia di Musetti effigia rendendo, quel terrore, un sentire iconico che riporta la nostra memoria ancestrale all’orrore di una morte per asfissia. Una morte, a volte autoinflitta, altre inferta che ha per oggetto la menzogna/certezza in merito ai molti pericoli del vivere.

 

«lei era morta mangiandosi/ da dentro – sempre più/ smagriva si assottigliava/ la sua battaglia incalzante/ dissipava le energie/ tenacemente si consumava» (p. 30).

 

Le storie sono all’inizio tutte uguali dice Musetti, poi avviene l’incontro con il mondo in piena coscienza o mancanti di coscienza del proprio status. Nel mezzo agisce la menzogna/certezza mai decaduta, con la quale si voleva convincere la Dickinson dell’esergo di Musetti a desistere dall’addentrarsi, spaventarla più con lo spauracchio del serpente infernale che facendole balenare la viva realtà di angeli boschivi, dei quali nonostante tutto Dickinson appurò l’esistenza attraverso la lente della poesia.

Ma l’inaddomesticato è non ritorno scrive ancora Musetti nella seconda parte del libro, quella che si apre con alcune poesie dedicate alle poete e scrittrici morte suicide. Plath, Rosselli, Pozzi e le altre per le quali l’esperienza della propria scrittura/natura nasce da un corpo straniero sessuato il cui vuoto non pretende di essere colmato. Qui ci dobbiamo soffermare sul significato altro di questo vuoto cui consegna l’inaddomesticato. Ossia un corpo per cui non esiste nomina o luogo per così dire originario, dentro un ordine simbolico monolitico per cui il vuoto è semplicemente qualcosa che deve essere colonizzato attraverso una definizione che lo renda non più tale.

Viviana Scarinci

 

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