Sento un grado non ignorabile di attrazione per la scrittura di Noemi Nagy, e soprattutto per la direzione presa da Sottopelle (Samuele Editore, 2025), per un motivo – sostanzialmente – identitario. Credo cioè che le sia riuscito il compito difficilissimo eppure necessario di elaborare una testualità che realizzi un adagio operativo di Roland Barthes a me carissimo, e che insomma abbia colto qualcosa del fare poesia che ancora in gran parte mi sfugge: «non la pelle, né i muscoli, né le ossa, né i nervi, ma il resto». Anzi, ritratto, credo proprio che abbia scritto il libro che per certi versi avrei sempre voluto scrivere.
Dico questo non solo per certe sintonie d’ossessione, dato che il punto non sono certamente io, ma per ciò che materialmente riesce a questo libro: rendere la materia e la sua storia per quello che sono, e cioè avanzo. È come se tutto funzionasse al negativo, in levare. Gli oggetti privi di senso intrinseco attorno a cui si forma la narrazione e la narrazione priva di giustificazioni oggettive che avvolge il reale presuppongono un sistema di vuoti, di interstizi, di bolle, gusci, pelli appunto. Come se non volessimo lasciare andare il mondo senza riceverne risposta e come se volessimo fare di tutto un corpo unico, coeso e coerente: ci cresciamo intorno, diventiamo cornice. Cosa resta, quindi, sotto la pelle del discorso poematico e/o macrotestuale (anzi: «dentro a un’unica grande pelle», citando verbatim)? Semantiche dell’indigesto (tenere a galla, restare sullo stomaco, residuare, avanzare, incrostarsi, farsi lische e denti) o proprio del digerente (condensare, mangiare, macellare, essere dentro e corpo e usare lenzuoli o gusci). In mezzo: per chi legge il corpo estraneo di una lingua altra – attorno al quale pure impegnarsi a produrre senso, a non interrompere la trasmissione – e per chi scrive il voler salvare il biografico, cioè: la scrittura della vita, la sua messa in testo o in dettato, il taglia-e-cuci che non contempla plothole, e non come atto meta ma come trauma subito.
Luigi Riccio
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