Piazzale senza nome ne Lankenauta

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Da Lankenauta

 

La poesia di Luigia Sorrentino è sempre stata caratterizzata da un’osservazione analitica delle pieghe dell’animo umano, capace di scendere a tale profondità da risvegliare e interpellare i suoi archetipi di fondo – quelle matrici essenziali del suo carattere che spesso schermano e ingabbiano la sua vera identità, impedendogli di spiccare il salto verso la realizzazione del Sé (ovvero il miglior potenziale individuale). Una di tali matrici, e delle più forti, è il dolore – insieme alla paura dello stesso. Piazzale senza nome, la nuova silloge dell’autrice, è un’esplorazione di questi territori condotta “senza anestesia”. Alternando testi in versi a brevi prose liriche, entrambi evocativi di momenti di strazio e di prova, conduce attraverso una sorta di itinerario guidato – in effetti, la si potrebbe vedere proprio come una sorta di meditazione guidata – nelle nicchie di tormento che l’essere umano cerca sempre di evitare, ma che solo venendo guardate in faccia possono essere portate a consapevolezza e smettere di bloccarlo nella sua evoluzione.

 

deve andare
mani abbandonate e sole – il polso
non si sente più –
il respiro precipita nel vuoto
la corsa chiude il suo ritorno

stringergli la mano

nella calma materna
corre tutta la vita

(pag. 21)

 

E poi:

il fazzoletto di lino imbevuto
nell’acqua, il dito passato
sulle labbra
lo abbevera oscenamente l’antico
silenzio di notti affamate

nel compiersi della fine
l’emergenza è un corteo di torture

(pag. 22)

 

E ancora:

gli ultimi gesti
sconfinano nella gravità
sempre più giù

la testa contro il petto
impressa sul torace la faccia
l’ultima vena si è fermata

morire con gli occhi offuscati
oltre le labbra
compulsiva
sofferenza senza risposta

(pag. 23)

 

Qui vediamo l’archetipo-mostro per eccellenza, quello della morte – e, ancor più e prima, quello dell’agonia. Luigia e io ci siamo passati con i nostri padri, e ci abbiamo dialogato, come chiunque abbia avuto un’esperienza simile. È per questo che posso dire senza tema di smentita che qui l’autrice è tanto perfetta nello scendere nell’archetipo, quanto nel trascenderlo. Non lo edulcora, ma lo restituisce in tutta la sua spietata verità – spietata in senso oggettivo, non intenzionale, e in qualche modo riecheggiante la fisiologica indifferenza delle dinamiche naturali, consonante con la poetica di Lucrezio nel De rerum natura – mi viene in mente la descrizione della peste di Atene nel capolavoro del poeta latino, massima espressione della filosofia epicurea in versi. E ciò avviene non solo per l’intensità della scena, ma, come dicevo, proprio per la sua capacità di elevarsi a bellezza, e dunque a spirito, in quell’afflato di amore che è l’esatto opposto dell’indifferenza dei neutri fenomeni naturali, ma è parte integrante delle relazioni energetico-spirituali, e in primis di quelle umane (finché restano umane, almeno). Così, anche il nucleo dell’esperienza cristiana, il sacrificio che è prima di tutto un rendere sacro, attraverso la condivisione e la carità che escono spontaneamente dal cuore, si riversa su questo scenario, squarciando – o cuocendo, come direbbero i sapienti orientali – l’archetipo del dolore (e della paura) per lasciar intravedere un Oltre di Eterno.
Non per questo, sia chiaro, siamo di fronte a una poesia religiosa. Eppure, profondamente spirituale lo è: di quella spiritualità che è insita nella materia e si fa strada nell’ostile resistenza del mondo e del corpo, impregnando e vivificando anche la morte, e anticipando un bagliore di resurrezione. Prima, però, è necessario, dantescamente, attraversare i reami infernali. Da qui le parti imperniate sul dramma della droga e della violenza, che sono come orlate da scenari metropolitani periferici immersi nel grigiore, la cui “purgatorialità” pare la promessa di un forse-Oltre aperto a chi sa resistere o reagire.

 

L’iniziazione era avvenuta nel piazzale della ferrovia mentre la brezza gonfiava la sera. Una raffica violenta scopre i ragazzi sotto il cielo chiaro in un altro risveglio. Il viaggio è appena cominciato. nelle vene il freddo glaciale dell’inverno.

– Posso smettere quando voglio – disse con aria di sfida. Poi si allontanò rapido e la brezza spense la fiamma dei suoi capelli.

Te ne vai, solo, negli occhi e nel sangue. Nessuno ti parla, nessuno. Un lago ti circonda.

 

Amasti il gelo della fine.
Ecceduti. Schiantati in gola.
In un unico accordo discendente.

(pag. 28)

 

Giovanni Agnoloni

 

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