Nissun di nun – Francesco Indrigo

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Prezzo 4 euro


 
 

Nissun di nun
Francesco Indrigo

Samuele Editore 2018, collana Scilla
prefazione di Gian Mario Villalta

pag. 228
Isbn. 978-88-94944-00-6

12 €
 
 

Gli anni passati dal primo libro di poesie di Francesco Indrigo (Matetâs, Nuova Dimensione 2001) a questo Nissun di nun (Nessuno di noi), denso di luoghi e di volti, hanno approfondito e maturato, ma non alterato, una poetica che prende forza da una tenace passione per tutto ciò che affolla l’esistenza di tutti e lascia traccia di sé nella vita individuale. E se pure a volte è vivo il fastidio per questo affollamento, per lo spreco di vita che a volte perpetra, non viene mai meno la cura, l’attenzione donata anche a ciò che disturba o non si può accettare. Gli anni, infatti, non hanno portato via a Indrigo la sua naturale irruenza, quella gioia nel contatto pelle a pelle con la vita, e insieme il gesto palese di accoglienza o di rifiuto, ma hanno insegnato l’attesa e la meditazione, la consapevolezza del tempo che passa e molto porta via, rendendo più prezioso ciò che lascia.

L’epigramma, la conflagrazione di elementi incongrui, lo sberleffo e la sorpresa linguistica che caratterizzavano, quasi vent’anni fa, Matetâs, hanno lasciato il posto, amplificati i mezzi espressivi, a un’ironia diffusa, che si insedia in una forma quasi narrativa, di voluta e arrischiata pronuncia dell’io che dà voce a un’esperienza e ne valuta la possibilità di condivisione. Tra i tratti salienti di questa raccolta c’è infatti anche la poesia sulla poesia, non solo sul fare poesia, che è più diffuso, ma una più originale considerazione sul leggere o, ancora di più, sull’empatia, sul patire la poesia, che è sempre – come la lingua è innanzi tutto degli altri – poesia degli altri.

Luoghi, volti, si diceva, e poi figure del tempo, istanti del vivere, che formano un universo di frammenti, dove passato e presente, mondo di ieri e di oggi, l’uomo che è presente alla sua parola e il ragazzo o il bambino che è stato, formano una totalità instabile, tenuta insieme da fili evidenti e da altri nascosti. Al rischio dell’aneddotica, Indrigo contrappone la forza di un sicuro radicamento nella geografia e nella socialità, grazie a una parola sempre immersa nell’esperienza. Certo, la memoria è patrimonio personale, ma diventa importante per il lettore perché porta altri tempi, altre forme del vivere, senza sbandierare valori, ma offrendo la verità di vite diverse da quelle che siamo invitati a vivere, informate su modelli troppo uguali. Indrigo evita la noiosa (perché celebrata per decenni) esaltazione della marginalità, tanto cara a certa poesia neodialettale, per cercare il personale legame che alimenta uno sguardo sul mondo che potrebbe essere diverso e più libero. Da quest’ultima via di approccio possiamo anche indovinare in questi versi l’invito a un’apertura, ad allargare lo sguardo, e vedere di più di quello che solitamente si comunica sulla vita di tutti – l’originalità, intendo, di tutte le forme di esistenza.

dalla prefazione di
Gian Mario Villalta

 
 
La pasiensa da la puisìa
   
Coma no vê dôl cuant ch’a ven
scjassàda, strassinada ta li’ plazis,
preàda, lustràda e laudàda
dai ciantors da li’ rimis.
Opùr tignùda in cont, travuardada
da ociàdis ordenaris in aulis
rimessadis. E po sglinghinaments
di bussùtis e incens sparnisàt.
Passàda tal tamès da capelans
studiàts o vint savoltant segnàt
cul det, a spissigâ li’ cuardis
da la calcolada dismintiansa.
La pasiensa da la puisìa a no conòs
viars. Epùr ‘i l’ài vidùda ta l’ultima
fila, li’ giambis a cavalot, i dets luncs
a polsâ tal grin e ridi cunt’un ‘pena,
‘pena lizierut scjàs dal seòn.
 

La pazienza della poesia
Come non provare compassione quando viene / strattonata, trascinata nelle piazze, / invocata, incensata e lodata / dai cantori delle rime. / Oppure preservata, protetta / da sguardi volgari in aule / damascate. E poi tintinnii / di ampolle e spargimento d’incenso. / Passata al setaccio da chierici / eruditi o additato vento perturbante / a pizzicare le corde / del calcolato oblio. / La pazienza della poesia non conosce / verso. Eppure l’ho vista nell’ultima / fila, le gambe accavallate, le lunghe dita / a riposare sul grembo e sorridere con appena / un lieve sobbalzo del sopracciglio.

  
 
 
 
Linguinis al pest
   
Il volum al è bas, puc pì che un cisichès
par no daj fastidi ai clients. Il scarpetâ
svelt dai cameriers al parta ben. Plats
stuzighins a vegnin poiàts ta li’ tovais di splaza,
compagnats da vosadutis di gust. Tal televisor
a passin figuris modernis di guera. Aleppo
la granda a è davor murî. J ni rispiri il vint frait.
Il ciacarussâ al monta su, cualchidun al rìt
a bocia spalancada, la stagion cialda a pompa
la bielessa dal svualadìs. Omnar Daqneesh
al à sinc ains, tiràt su a la vita dai visars a patràs
e sintàt ta li’ careghis arancion da la ambulansa.
Al à il vardâ spiardùt dal sanc. ‘Na mari a ziga
robis ch’a no si riva adora a capî al fì ch’al sghirla
tra i taulins dal ambient. Omnar invessi al à giambis
secis inciandidis e a pindulon tal vuet ch’a j è.  
‘I ài pora ch’a lu vedin mitùt ulì par l’ocident dal mont,
ma rivâ a vardàlu a ti sassina.
Dut ator di lui stomeòs funs di muart a slambrin
la sitàt siaràda. Dovor di me un on al tontòna
par il puc sal ta li’ linguinis al pest e al planta
‘na naina par li’ visions ruspiosis ch’a dan par television,
propit ta l’ora dal gustâ. Cun savietàt, l’atenzion
a ven di corsa spostàda ta un program di zovins cogus.
L’aria a si è fata penza e di bestia.
   

 Linguine al pesto
Il volume è basso, poco più che un sussurro / per non disturbare la clientela. Lo scalpiccio / veloce dei camerieri promette bene. Piatti / appetitosi si depositano sulle tovaglie balneari, / accompagnati da gridolini di approvazione. Nel televisore / scorrono moderne immagini di guerra. Aleppo / la grande sta morendo. Ne respiro il vento fetido. / Il cicaleccio si fa più insistente, qualcuno ride / sguaiatamente, la calda stagione esalta / la bellezza dell’effimero. Omnar Daqneesh / ha cinque anni, è stato riportato alla vita dagli abissi in rovina / e seduto sulle sedie arancio dell’ambulanza. / Ha lo sguardo disperso dal sangue. Una madre urla / cose incomprensibili al figlio che zigzaga / tra i tavoli della trattoria. Omnar invece ha gambe / magre e sospese sul vuoto che c’è. / Temo l’abbiano messo in posa per l’occidente del mondo, / ma riuscire a guardarlo ti devasta. / Tutt’attorno a lui nauseabondi fumi mortiferi dilaniano / la città assediata. Alle mie spalle un uomo lamenta / il poco sale sulle linguine al pesto e protesta / per le scabrose visioni che passano sullo schermo, / proprio all’ora di pranzo. Più saggiamente, l’attenzione / viene prontamente indirizzata su di un programma di cuochi in erba. / L’aria si è fatta densa e feroce.

  
  
  
  
A sta in-tal viaz
   
A j era un pissu’ rai neri, cun ‘pena, ‘pena
marcàdis da li’ rigutis rossis ch’a j scjavassevin
il stomi lusìnt. A erin dìs ch’al zeva avant di bessòl.
Da li’ inglazadis praterìis da l’Alaska, a li’ slusignadis
slargiaduris di savalon dal Gabon. ‘I no savevin
di cuala clapa ch’al fos, ‘i ocièvin inciantàts il siò
torzeonâ, ch’al someèva sensa destìn, lunc
li’ linìis no conosudis dal Planisfero. ‘I rivevin
a scuiarzi la sò cova da un scuasi invisibil grunùt
di fîl al larc da li’ rivis fransesis da la Normandia.
Al steva a gala par oris tal Atlantic, par tornâ
a partî a scjafoiòn viarz cuissà cual puart, ta cual
continent. Ta l’ora di geografia, la profesoresa
cul det a scori la ciartina, à molàt un zigonut
propit davant al Canal di Suez, fasìnt un netaveriu
da la spedizion e la ponta dal siò sandu
à mitùt fin al nostri bulo esploradòr.
  

Sta nel viaggio
C’era un piccolo ragno nero, con appena / accennate righine rosse che gli attraversavano / la lucente cassa toracica. Procedeva da giorni in solitaria. / Dalle raggelate praterie dell’Alaska, alle baluginanti / distese sabbiose del Gabon. Non sapevamo / a quale tribù appartenesse, osservavamo incantati il suo / girovagare, apparentemente senza meta, lungo / le inconoscibili traiettorie del Planisfero. Riconoscevamo / il suo campo base da un quasi impercettibile grumo / di filamento al largo delle coste francesi della Normandia. / Galleggiava ore sull’Atlantico, per riprendere / fulmineo il viaggio verso chissà quale attracco, in quale / altro continente. Nell’ora di geografia, la professoressa / con l’indice a percorrere la cartina, emise un breve urlo / proprio all’altezza del Canale di Suez, facendo miseramente naufragare / la spedizione e la punta del suo sandalo / mise fine al nostro eroico avventuriero.