Miglior acque

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Miglior acque
33 poeti neozelandesi e italiani rispondono al Purgatorio di Dante

A cura di Marco Sonzogni e Matteo Bianchi

Pagine 198
Prezzo 15 euro
ISBN 978-88-94944-58-7


 
 
Versione online Sbac!
Prezzo 5 euro


 
 

Pubblicato con il sostegno del New Zealand Centre fot Literary Translation – Victoria University of Wellington

 

I poeti neozelandesi:

Airini Beautrais, Marisa Cappetta,Kay McKenzie Cooke, Mary Cresswell, Majella Cullinane, Sam Duckor-Jones, Nicola Easthope, David Eggleton, Michael Fitzsimons, Janis Freegard, Anahera Gildea, Michael Harlow, Jeffrey Paparoa Holman, Anna Jackson, Andrew Johnston, Tim Jones, Elizabeth Kirkby-McLeod, Hugh Lauder, Vana Manasiadis, Mary McCallum, Elizabeth Morton, Kōtuku Titihuia Nuttall, Vincent O’Sullivan, Robin Peace, Helen Rickerby, Reihana Robinson, Robert Sullivan, Steven Toussaint, Jamie Trower, Tim Upperton, Sophie van Waardenberg, Bryan Walpert, Sue Wootton.

 

I poeti italiani:

Laura Accerboni, Antonella Anedda, Bianca Battilocchi, Marco Bini, Maria Borio, Lucia Brandoli, Alessandro Brusa, Sonia Caporossi, Gianmaria Cornelio, Marco Corsi, Flaminia Cruciani, Tommaso Di Dio, Massimo Gezzi, Viola Di Grado, Alberto Fraccacreta, Guido Mattia Gallerani, Carmen Gallo, Tommaso Giartosio, Leonardo Guzzo, Federico Magrin, Mariangela Maio, Franca Mancinelli, Demetrio Marra, Giorgia Meriggi, Michela Monferrini, Carolina Montuori, Renata Morresi, Claudio Pasi, Antiniska Pozzi, Rossella Pretto, Flavio Santi, Daniele Serafini, Mariadonata Villa, Edoardo Zuccato.

 
 

L’antologia More Favourable Waters, a cura di Timothy Smith e Marco Sonzogni, edita a Wellington da The Cuba Press per il Dante Day 2021, ha proseguito la tradizione che spazia da William Blake a Dan Brown: ‘tradurre’ Dante, etimologicamente e simbolicamente, ai nostri giorni e nei nostri luoghi, addentrandosi nelle situazioni usuali con le modalità usuali. Per omaggiare il Sommo Poeta nel settecentesimo anniversario della morte i curatori hanno coinvolto trentatré poeti neozelandesi, a ciascuno dei quali è stata assegnata la prima terzina di un canto del Purgatorio come ispirazione, o meglio, come scintilla per scrivere una nuova poesia che li includesse e li trasportasse oltre i secoli. La scelta della seconda cantica è dovuta proprio all’immaginazione di Dante, il quale collocò «il duro masso» agli antipodi di Gerusalemme: un tunnel sotterraneo che arriverebbe in mezzo all’Oceano Pacifico. Sebbene la scienza teologica abbia omesso strategicamente di pronunciarsi sulla sua ubicazione, le terre più vicine sono le isole meridionali della Polinesia francese, piuttosto lontane dalla Nuova Zelanda, essendo Rapa Iti l’unica popolata nei pressi di questo “eden terrestre”.

La Nuova Zelanda, quindi, non era esattamente nelle coordinate dantesche quando, nel XIV secolo, posizionò il Purgatorio al centro di un oceano sconosciuto alle genti dell’Europa occidentale.

Samuele Editore ha voluto importare la materia poetica nel paese e nella lingua di Dante, testimoniando non solo la presa che continua a esercitare sugli autori viventi, ma anche il segno della diversità etnica, culturale, linguistica e formale della poesia neozelandese contemporanea. A questo proposito, è stato riproposto in copertina l’arazzo imponente di Roger Mortimer, riguardante la serie dantesca “Houhora New Zealand”. Nelle sei opere in successione l’artista scompone cronologicamente e iconograficamente un viaggio che continua senza sosta da quello dei primi esploratori, provando a metabolizzare la ferita ancora aperta della colonizzazione: alle voci indigene del Pacifico si sono unite quelle di varie ondate migratorie da ogni parte del pianeta. L’inglese parlato e scritto nella terra della lunga nuvola bianca è una benigna Babele; tradurre è quindi una dimensione necessaria della comunicazione quotidiana e creativa, e forse l’antidoto migliore a ogni forma di subordinazione. Inerpicarsi, verbo intransitivo che sottende una salita faticosa, quasi un’arrampicata richiedente appigli più o meno razionali, è la sfumatura linguistica che meglio raffigura l’abbinamento dei trentatré autori italiani individuati per tradurre i colleghi oltreoceano.

Il verbo in questione, nonostante il tono colloquiale della composizione originale, è stato impiegato da Carmen Gallo nella traduzione di Tim Jones, Near paradise. L’intenzione dell’interprete di utilizzare una voce verbale tanto connotata mette in risalto quanto un certo uso sconsiderato e sovrabbondante dei gergali abbia impoverito il nostro vocabolario abituale, riducendo drasticamente la nostra stessa portata immaginifica.

Matteo Bianchi

 
 
 
 
Hillside
 
Recall the first day of our tenancy.
It rained that morning. We taxied up in cool
September steam. Our neighbours brokered tea
And fatal gossip and a fishy towel
While we waited for an agent with the key,
The kind of easy dealing people loved
Before disease shied us.
Behind the parcelled garden, muntjacs hoofed
The scarp where Roman settlers once made midden,
A public kitchen tiled with rescued shards
Of early leaves, the chestnuts first to redden
Here and fall, then as now. Coughing hard
Into their hands with pleasure and in synchrony
The sculling crew across the terrace toked.
A student flat. We would succeed a family.
And three yards down, whose manicure evoked
My Yank imaginings of English hedge,
A poet lived, dying, we later learned.
The muntjacs caught our eyes and wouldn’t budge.
The rowers since moved on. The poet mourned
The crowded island he had not believed
‘Accessible’. We trade antipodes
Perpetually, it seems. Then we arrived
On a deserted shore that never sees
A man who sails its waters and yet knows
How to return. We tabulate the risks,
Step out into the autumn leaves we chose
And kiss our daughter through our cotton masks.
Cyclists pass with slow morality,
Conscience lately consciousness of farce.
Double-parked,
Removal vans have locked a classic hearse
Against the curb, retired and unmarked.
 
Steven Toussaint
 
 
 
 
Collina
 
Ricordati il nostro primo giorno in affitto.
Pioveva, quel mattino. Venimmo in taxi nell’umida
frescura di settembre. I vicini ci fornirono di tè,
chiacchiere fatali e una salvietta coi pesci,
in attesa dell’agente con la chiave,
il genere di cose che allietava i semplici
prima che il morbo ci isolasse.
Dietro i lotti di giardino i cervuli pestavano
il pendio dove un tempo i coloni romani impilavano rifiuti,
il pub era ammantato dei resti raccolti
di foglie precoci, che i castagni rosseggiano per primi
qui e si spogliano, adesso come allora. Tossendo
forte dentro i pugni, ebbra di piacere e in sincrono,
la ciurma ondeggiante sul terrazzo fumava spinelli.
Una casa di studenti. Facevamo famiglia.
E tre metri più in basso, la manicure come fosse
l’idea di una siepe all’inglese nel mio cervello yankee,
viveva un poeta, morente, scoprimmo dopo.
I cervi ci incantavano senza battere ciglio.
S’erano intanto mossi i marinai, piangeva il poeta
l’isola brulicante che non aveva creduto
“accessibile”. Scambiamo, sembra,
ininterrottamente antipodi. Poi arrivammo
a una deserta proda che mai
vide uomo solcare le sue acque e sapere
la via del ritorno. Studiamo i rischi,
mischiarci alle foglie d’autunno la scelta, baciare
nostra figlia oltre le maschere di cotone.
Ciclisti scorrono con lenta dignità,
coscienza recente cognizione di farsa.
I camion del trasloco
lasciati in doppia fila hanno bloccato
un vecchio carro funebre. Dismesso, senza insegne.
 
Leonardo Guzzo
 
 
 
 
 
 
In answer to the question of scale
 
Thou shalt not steal the parched earth,
nor till the clay of our makers; landscape’s
ancient fingers raise the undead to your service.
 
Resist the reaping of tikanga that masquerades
as story-your-own, to hoard
is to forfeit your life in stealth.
 
Thou shalt not squat on the braided spine
of your ancestor, scavenging the urgent
salt-ruined territory of her skin.
 
The rude of your monstrous story
is the commerce of identity. Relinquish
titles, the deeds of your culture-mendicant
 
slogans from tūpuna not your own;
words the survey pegs
that parcel the vacant slopes of her
 
geomythology. The pelt of the land, reduced
to nostalgic fumes that fertilise the wreath of your hunger
giant, invader-Mother-settler-Self.
 
On both flanks now, she casts shadow.
Her shoulders cloaked in purple weeds, wild with moth,
garlands for time’s metropolis;
 
             arteries of tiny houses festooned like small
             sarcophagi, spread in lines, whakapapa
– no longer the hero’s journey,
no longer the wrenching apart of the world
to see anew the genitals of your parents.
Nothing has been enough –
 
you have polluted the epic –
hokia ki tōu maunga, kia purea koe
e ngā hau a Tāwhirimātea.
 
Run to the mountain, for your slough prevents
God’s being clear to you. It must be stripped
from you. Yes, you are here to be made clean.
 
Anahera Gildea
 
 
 
 
In risposta alla questione delle dimensioni
 
Non ruberai la terra disseccata
né dissoderai l’argilla dei creatori; le vecchie dita
del paesaggio levano i non-morti al tuo servizio.
 
Resisti al raccolto del tikanga che si spaccia
come storia-tutta-tua. Accumulare
è perdere la vita di nascosto.
 
Non ti accuccerai sulla rachide intrecciata
della tua antenata, rovistando l’urgente
superficie sua della pelle, arsa di sale.
 
Il brutto della tua storia mostruosa
è il commercio d’identità. Rinuncia
ai titoli, agli atti della tua cultura-slogan
 
mendicanti di una tūpuna, non tuoi;
parole i paletti dei rilievi
che spartiscono i pendii vacanti della sua
 
geo-mitologia. Il manto della terra, ridotto
a fumi di nostalgia che fecondano il serto di fiori della tua fame
gigante, chi invade-Madre-chi s’assesta-Te stessa.
 
Proietta ombra su entrambi i fianchi,
le sue spalle ammantate di malerbe viola, selvagge di falene,
ghirlande per la metropoli del tempo;
 
             arterie di case minuscole festonate come piccoli
             sarcofagi, diffuse in linee, whakapapa
– non più il viaggio dell’eroe,
non più la disgregazione del mondo
per rivedere i genitali dei tuoi genitori.
Nulla è bastato –
 
hai inquinato l’epica –
hokia ki tōu maunga, kia purea koe
e ngā hau a Tāwhirimātea.
 
Corri alla montagna e lascia la tua vecchia pelle
sulla terra. Impedisce a Dio di esserti chiaro.
Bisogna levartela. Sì, sei qui per essere sanata.
 
Antonella Anedda, Marco Sonzogni
 
 
 
 
 
 
Rock
 
I
Corbels etched and gargoyles carved in corners,
Dante’s purging prideful, backs bent by stones.
And one that looked resigned to his distress
seemed also, by his weeping, to despair,
saying ‘I’m finished’ with his will still there.
 
 
II
It’s haughtiness perhaps or arrogance,
self-centredness the greater sin than pride,
superciliousness that bends them down.
But pride? Why pride? Why should that be a sin?
There’s nothing wrong with satisfaction earned.
 
 
III
Who’d begrudge the child who wins their races?
Courageous marchers with their hard-won flags?
And what makes you proud? Family? Garden?
The deck you built? The language that you learned?
Pride may be your bonus not your burden.
 
 
IV
And as for ancient images in stone,
give me a Sheela na gig any day,
divine hag in the castle’s corner quoin,
hands holding open heaven’s other gate,
portal to this world, the way we entered.
 
 
V
There is a rock I love called Marsden Rock,
lathered in guillemots and kittiwakes.
I thought it was a constant in my life
until the centre of its arch came down.
Still, most of it remains, feet in the waves.
 
 
VI
I have a loving man who is my rock
and yes, I’m proud of eighteen happy years.
You’ll find your rocks whenever you have need.
A rock should lift you, never weigh you down.
A rock should be your comfort and you theirs.
 
 
VII
Let go the boulders, do not bend your back.
Look to the skyline, raise your arms and smile.
Watch all your stones roll down and disappear.
 
Janis Freegard
 
 
 
 
Pietra
 
I
Mensole incise e gargoyle scolpiti negli angoli,
i superbi di Dante che espiano, schiene piegate dalle pietre.
E uno che sembrava rassegnato al suo tormento
sembrava anche, dal suo pianto, disperare
dicendo ‘Sono finito’ con la sua volontà ancora lì.
 
 
II
È la superbia forse o l’arroganza,
l’egocentrismo il peccato più grande dell’orgoglio,
l’alterigia che li piega.
Ma l’orgoglio? Perché orgoglio? Perché dovrebbe essere un peccato?
Non c’è niente di male nella soddisfazione meritata.
 
 
III
Chi invidierebbe il bambino che vince le loro gare?
Coraggiosi marciatori con le loro bandiere conquistate a fatica?
E cosa ti rende orgoglioso? La famiglia? Il giardino?
La terrazza che hai costruito? La lingua che hai imparato?
L’orgoglio può essere il tuo premio, non il tuo fardello.
 
 
IV
E quanto alle antiche immagini nella pietra
dammi sempre una Sheela na Gig,
divina strega nel concio d’angolo del castello
mani che tengono aperta l’altra porta del paradiso
portale di questo mondo, la via da cui siamo entrati.
 
 
V
C’è una roccia che amo chiamata Marsden Rock,
insaponata di urie e gabbiani.
Pensavo fosse una costante della mia vita
finché il centro del suo arco non cadde.
Eppure, la maggior parte rimane, i piedi nelle onde.
 
 
VI
Ho un uomo amorevole che è la mia roccia
e sì, sono orgogliosa di diciotto anni felici.
Troverai le tue rocce ogni volta che ne avrai bisogno.
Una roccia dovrebbe sollevarti, mai opprimerti.
Una roccia dovrebbe essere il tuo conforto e tu il loro.
 
 
VII
Lascia andare i macigni, non piegare la schiena.
Guarda l’orizzonte, alza le braccia e sorridi.
Guarda tutte le tue pietre rotolare giù e scomparire.
 
Franca Mancinelli