Massimo Morasso su “Il dolore”

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Alberto Toni, Il dolore, Samuele Editore, Fanna (PN), 2016, pp. 94, 12 euro

 
 

C’è un quadro incantevole di Émile Friant che s’intitola La Douleur, il dolore, parola che in francese, quasi come un’emanazione o un frutto di sapienza materica e ancestrale, è di genere femminile. Allo stesso modo insieme semplice e terribile s’intitola questa nuova raccolta di Alberto Toni, Il dolore, edito nei bei tipi in copertina bianco-blu della collana Scilla di Samuele Editore.

Si tratta di un libro eccellente. Che eccelle, innanzitutto perché riconcilia il lettore sazio di letture con l’idea della fertilità di una linea a ritroso del gesto poetico che dal Luzi di mezzo secolo fa ci porta alle spalle del Novecento e della sua deriva, il Novecentismo. Che eccelle, poi, perché nonostante il suo titolo, non si balocca in dolorismi, ma scorre con limbica levità nei pressi della lingua del cuore, tutto incavato com’è tra gli estremi del lutto di un colloquio impossibile (con il tempo che fu; con i cari morti; con un presente inospitale e fuggitivo) e l’entusiasmo di quando la parola poetica consente di riaprirlo, quel colloquio (a prima vista) impossibile con l’Impossibile, e di assemblare, perciò, una visione portatrice di senso: una visione, in questo caso, capace di restituire la mente percossa da multiformi, sempre nuovi dolori a quella gioia paradossale che per primo Hölderlin, fra i moderni, ha intuito potersi schiudersi solo di notte, nel tempo del Dolore, appunto: «Molti tentarono – invano – di dire con gioia/ ciò che più è gioia: qui, finalmente, nel lutto/ si esprime».

Questo libro eccellente eccelle anche in un altro senso, che diremmo meta-poetico, perché insegue il significato reale della parola dolore sia nella cosiddetta “esperienza vissuta” che nella sua calibrata attestazione letterata. Le araldiche allegorie della trota sannita e dell’upupa, così scopertamente montaliane, ci lasciano il sentore buono delle cose che tornano alla vi(s)ta anche per forza di tradizione. Le figurine del cuore di tenebra che lanciano frecce prima che Kurtz si faccia vedere dalle parti del poeta nel “tempo del battello e della recita” che egli si è imposto, osano, invece, tentare di portarla un passo più in là, quella tradizione… Che è come dire, se la giocano con Toni nell’ardua sfida del presente evocata dal prefatore Roberto Cescon. Ma qui la dialettica non è che blandamente progressiva, perché è di quelle antiche: tesa com’è a far convivere in un simbolo fruttuoso ludus e luctus nel punto ferito della coscienza dove il dolore è come l’io che lo subisce, uno e molteplice, e tragicomico, e divino.

Massimo Morasso