Mal di maggio su Carte Sensibili

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da Carte Sensibili
 
 

“La mia scrittura è povera / perché io stesso povero / mi vedo”. Così si definisce Antonio Lillo in una delle poesie di Mal di maggio.
Chi ha seguito l’itinerario di questo poeta pugliese coglierà il cerchio che congiunge questo titolo a L’innocenza del male, sua silloge d’esordio per Lietocolle nel 2008. E in effetti tornano qui i suoi temi più cari: l’osservazione cruda e impietosa della realtà, illuminata però da lampi d’ironia; l’autoritratto onesto fino al masochismo; le tranche de vie di provincia; la riflessione sulla propria doppia attività di poeta/editore (Lillo è titolare di Pietre Vive, una bella realtà editoriale con sede a Locorotondo); il tutto in una lingua che aderisce al quotidiano, rinunciando programmaticamente alle bellurie dello stile.
In una poesia, quella italiana, che soffre ancora pesantemente di lirismo, di autocompiacimento e di cascami decadenti, la poesia di Antonio Lillo si staglia per la sua semplicità rude e diretta: “Faccio un discorso sulla poesia? / A chi lo indirizzo? Verso quale orecchio? / Uno mi darà piena ragione. / Uno sghignazzerà di gusto e un altro / mi manderà a cacare senza educazione” (dove il turpiloquio non è gratuito, ma è mimesi non filtrata, necessaria). Non è certo la via giusta per conquistarsi simpatie (specialmente se si parla senza mezzi termini di una “ambita rivista che fa sane marchette / e cede spazio al brutto libro di un coglione”), ma l’autore non pare particolarmente interessato né al vittimismo, né a pose ribellistiche: si limita a dipingere, con amaro disincanto, ciò che evidentemente conosce bene. Il rapporto con la sua stessa parola poetica, del resto, è sempre conflittuale: “La poesia è un’arma pensata / caricata e lasciata alla mercé di chi passa. / Non capita, verrà puntata anch’essa senza di te”.
Un altro carattere che salta all’occhio, nel libro, è la mescolanza di poesie e di brani in prosa, che d’altronde non mostrano alcuna soluzione di continuità: non perché si tratti di prosa poetica, ma al contrario perché è la poesia che tende a precipitare sul versante della prosa; o forse perché sono il mondo, la vita stessa, a presentarsi come prosa, come banalità del male: “Vivere come un gatto, paralizzato sulla strada mentre osserva l’auto arrivare, i suoi fari accecanti”.
Insomma: chi cerca consolazione non legga Mal di maggio. Lo legga piuttosto chi vuole, con Camillo Sbarbaro, “guardare con occhi asciutti se stesso”.

Sergio Pasquandrea

 
 
 
 
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