L’azzurro della speranza – Giorgio Bárberi Squarotti

  • Tempo di lettura:6 minuti di lettura

 

 


 
 

L’azzurro della speranza
Giorgio Bárberi Squarotti

Samuele Editore 2012, collana Scilla I Maestri

pag. 50
Isbn. 978-88-96526-22-4

 

PREMIO SATURO D’ARGENTO 2012

 
 
 
 
Nel negozio di via Roma
 
 
La grande schiena nuda, impallidita
fino al colmo stupore dell’inverno
senza più sole, attentamente offerta
dalla commessa nel piegarsi a cogliere
fogli multicolori e stelle e lune
di carta e le visioni di colline
azzurre e alberi luminosamente
verdi e rose e viole e gelsomini
e ciliegie dipinte: era l’annuncio
della purezza immobile nel giorno
più breve, già finito o appena sorto
nella fragilità tanto che sembra
sensibilmente udirsi il vetro rompersi
o il malizioso invito della donna
che sorridendo si voltò, mostrando
suasivamente tondo il ventre quasi
fino al pube, e appoggiò la mano a lungo
sulla spalla del vecchio compratore
di immaginosi inchiostri, ed era un gioco
e un addio nell’estremo evento di ogni
anno e del tempo, e chi sa mai se, dopo,
apparirà ancora il dono candido
d’altra stagione e di lei, che ora conta
le monete, le porge, poi, ambigua
un poco e un poco indifferente e pigra,
solleva la cintura per finzione
di pudore, ma poi la lascia scendere
di nuovo in basso, perché sa che doppia
è la grazia della sua nudità
fra il suo passato ed il suo nulla, come
l’età dell’uomo che esce dal negozio
affaticato, stanco, tristemente
deluso.
 
 
Torino, 25 dicembre 2003
 
 
 
 
 
 
Di nuovo una fioraia
 
 
Tutte le albe, quelle dell’avvento
del vento che solleva fino al cielo
le celesti montagne, o quelle immobili
di lattiginose nebbie o il gelo aspro
dell’ora nevicata di gennaio,
o la luce folgorata ed eterna
di luglio, disponeva sopra i banchi
i fiori colorati, gli uni fiammei
per la vitalità più clamorosa,
timidi altri di stupori violacei,
e i molti ori e i candori e il verde sacro
nei quali a tratti sguardi azzurri brillano.
Ugualmente mutevoli i capelli
nelle diverse finzioni del Tempo,
il corpo di fronte ora a nevi e piogge,
ora all’arsura, immaginato e vero
era nudo: oh Elena commessa,
suasivamente rauca, camuffata
con il nome divino e periglioso
nel mercato protervo e mescolato,
per portarvi, qui e sempre, la beltà
della Natura che trascorre rapida
e si disfà nei petali precari
e nelle foglie caduche, ma nasconde
con la sicura cura danni e perdite
con le sue mani attente e con le pure
forme che suppliscono idealmente
alla sequenza dei giorni con il loro
dissolversi, senza memoria.
 
 
Torino, 18 dicembre 2004
 
 
 
 
 
 
In anticipo, il treno
 
 
Il treno era in anticipo di un giorno
ed era infatti tutto illuminato
e vuoto, anche se sui cuscini c’erano
giornali, cornucopie, foto
di cantanti e di nuotatrici, immagini
offuscate di papi e imperatori.
Per curiosità e per gioco entrai
nell’unico scompartimento buio,
e dentro c’era la ragazza semi-
nuda, distesa mollemente, il volto
sorridente e interrogativo (e fatto
subito triste dopo che mi vide
a lei davanti, come se io avessi
spezzato il lungo sogno vero). Adagio
con la mano lisciò con finta cura
i pantaloni bianchi, poi i fianchi,
infine accarezzò le mammelle erte.
Scosse i capelli neri: -Forse ieri
siamo partiti o in un altro tempo, o forse
non ancora. Ecco, sul tavolino
ci sono pasticcini, il thè, i foglietti
rosa per scrivere, se vuoi possiamo
giocare a scacchi, so che sei capace,
ma non temere, io vinco sempre, e dopo,
se tu desideri…
 
 
Modena, 24 aprile 2009
 
 
 
 
 
 
Conad, Coop
 
 
Ho trentacinque anni e sono ancora
bella: guardami, bionda, alta, sì forse
un poco troppo magra, ma pronta, agile,
sempre sorridente, pur quando il giorno
ripiega, stanco, i vanni fatti pallidi
(vedi, io sono in grado anche di dire
parole da poeta per il tuo
stupore, e poi citare alla rinfusa
Omero, Dante -no, non quello della
canzone del torrente di Monforte
o è un altro nome, forse di Provenza-,
Giacomo, William, il caro zio Ezra,
con cui fui tutta una notte a Parigi
nel candido hotel di Babilonia e Suisse).
Dico: è il destino baro. Mia sorella,
che è moglie di un politico e l’amante
di un operaio giovane dell’Eden,
dice che è colpa della mia sventata
pruderie (usa la parola inglese
per più disprezzo). Forse è vero. Faccio
la commessa del minimercato
della Piazza Martiri, dove vengono
a comprare cipolle stente, vino
senza nome, biscotti, un po’ di caldo
perché il tempo è feroce, solo vecchie
impazzite e qualche padre perduto
che neppure mi vede e cela quasi
vuota la borsa nell’impermeabile.
Sei tu un soldato? o, meglio, devo dire
la parola più adatta, che ricordo
del primo anno del liceo di Cuneo:
un “legionario”, la corazza, nude
le cosce forti, gli schinieri lucidi
di bronzo, strani i mocassini bianchi
troppo eleganti. Ma da dove vieni?
che cosa mai vuoi? Mi gettò nel banco
sette monete d’oro e rame e un gladio,
e bruscamente mi strappò la maglia
viola, abbassò jeans e perizoma
e incominciava. -No, no, ma debolmente
protesto. Subito mi lasciò. -Sei
una stronza, mi avevano avvertito.
Per un istante mi contempla, quasi
nuda. -Eppure. Si riprende il denaro,
si tiene la mia cintura. -Così
ti ricorderò, prendi pure l’arma,
potrà servirti; e fece una risata
aspra, che risonò nella mattina
insieme col fracasso brullo della
serranda che qualcuno lentamente
stava sollevando.
 
 
Roma, 4 marzo 2010